sabato 23 novembre 2013

Vincenzo Guddemi è nato a Ribera il 13 marzo 1895 da Calogero e Giuseppa Maria Garamella, sposato pure a Ribera il 23 aprile 1922 con Maria Garamella (nata il 18 novembre 1901 - morta l'11.10.1975) di Matteo e Onofria Cufalo. Muore il 21.12.1976.

Foto Vincenzo Guddemi e la moglie Maria Garamella


Pubblicato parzialmente in Momenti n. 257 (integralmente)



Protagonisti della Storia di Ribera: Vincenzo Guddemi

La storia dei quattro feudi


Preghiera: Io voglio compiere questa azione, o mio Dio, perché Voi la volete e come voi la volete, per vostro amore e per la vostra maggior gloria.
Datemi, o Signore, la grazia necessaria per compierla.

Vorrei scrivere nel mio povero stile il mio diario a ricordo della mia povera vita, cominciando dai primi ricordi, da piccolo, fino all'età presente.
Terzo Vincenzo della mia famiglia (primo-quinto) e il nono dei figli; dopo di me nacquero due sorelline, Giuseppina e Rosina, quest'ultima muore in concetto di santità; le ossa, esumate, riposano nella Gentilizia attuale di famiglia. Giuseppina muore studentessa e Giacomina maestra della seconda classe. Sante sorelle! lasciarono largo rimpianto di un amore affettuoso e fraterno.
Genitori buoni, specie papà, morì per il duro lavoro e l'affanno quotidiano anzitempo, anche a motivo di controversie e afflizioni, arrecategli da un parente vicino di casa per l'eredità della suocera (Vincenza Musso) e per l'invidia di una propria sorella materna, Di Giorgi Rosina.
Questa con un codicillo, aggiunto al testamento, martirizzò la nostra famiglia, provocando dissesti e discordie, onde venne lo sparentamento completo, sempre imprecando contro il male fatto dalla ruffiana sorella, che non lasciò nemmeno la leggittima della proprietà né denaro alla cara mamma. La chiamarono "litigante".
Il mio primo ricordo è dell'agosto 1988; mio fratello Gioacchino spara una sola fucilata al balcone contro un nostro parente vicino malefico nella via Colletti; la palla colpisce la bacchetta di ferro lasciando vivo ma ferito il parente; come condanna mio fratello ebbe sei anni di galera e in seguito a tale condanna si è perduto per tutta la vita; a causa del carcere in età molto giovane (19 anni) e di altre imprudenze giovanili fu maltrattato anche con forza di mano fino a ricevere rottura di ossa: di tale circostanza i piccoli risentirono le conseguenze di sofferenza.
L'infanzia la ricordo come un sogno; a sei anni alla scuola; il maestro don Pietro Mandina ci insegnava cantando dalla a alla zeta; a primo anno passai la prima, il maestro della seconda si chiamava don Carmelo Montalbano e passai alla terza ma restai ripetente e come venne l'undici novembre mio padre mi portò a mettere "a sulicu" orzo al pane Giardinello e così finì il paese, finì lo studio; ma a quei tempi non si poteva essere elettori senza la carta di passaggio dalla seconda alla terza e quindi andai alla scuola serale e fui promosso.
A sette anni nel giorno del patriarca S. Giuseppe, 19 marzo, feci la prima comunione da solo; le preghiere le sapevo in modo differente dagli altri, perché me li aveva insegnato la mia mamma, all'antica, analfabeta, ma il contenuto delle parole era esatto. Felice il giorno della prima Comunione!
Senza che nessuno mi guidò, in quel giorno non sputai per tutta la giornata perché mi dicevano che non si doveva.
Imparai a conoscere i frutti della terra e li volevo in gran quantità nella mia casa; si sconoscevano carciofi, cavoli e frutti d'orto, ma non mi detti pace finché non ottenni l'abbondanza di tutto e per tutto; per nove anni ho frequentato le terre di Giardinello fino a 19 anni, quando partii per soldato. Sconoscevo il latte e non ne volli mai sentire; di fatti lu zu Minicu Tavormina mi fece mangiare la ricotta con il siero e mi abituai, mangiandone per diverso tempo.
Mio padre, uomo di lavoro, premuroso in tutte le cose, aveva come dote principale la sollecitudine; con lui mi ero abituato a correre sempre insieme alla mia compagna privilegiata -l'asina Garofalo- che faceva un puledro ogni anno (ne fece tredici) che si vendeva cento lire o meglio ottunzi;
la tredicesima puledra fu il mio cavallo di battaglia; forse per le carezze e le cure si fece alta come una mula e faceva corse a scommessa con i cavalli!
Il caro papà aveva tanto bisogno del mio lavoro e brontolava quando io straripavo (facevo altro lavoro) o per ammucchiare concime o per piantare cavoli e altro; per lui questo non era lavoro, però rideva quando raccoglieva.
Usanza estiva era andare al paese per prendere la pasta cotta: tortura terribile con le pendole di creta, fino a Santo Pietro al Giardinello; spesso si rompevano e la spisa si mangiava con li giammariti.
Oh terribile la società dello zio Matteo e mio padre! I piccoli facevano sempre zuffe pericolose, specialmente Calogero e io, che eravamo coetanei; durò poco quell'epoca di società, altrimenti si sarebbe ancora nelle zuffe anche da grandi a causa dei piccoli.
Nel maggio 1912 il caro e povero papà mio si ammalò di risibella e soffrì tanto che si ridusse all'estremo della sua salute. Ahimé! un giorno lo sollevai per cavalcare e mi accorsi che non aveva più carne e allora gli proibii di venire in campagna per curarsi, ma forse non fece cura esatta o non era ancora del tutto guarito quando verso il 20 maggio, incominciata la mietitura, a qualunque costo volle venire ad assistere; si preparò falce e cannelle e non fu possibile levargli di mente a non mietere un paio di giorni, perché gli sopravvenne la polmonite.
In breve tempo il male lo portò alla tomba; il 4 giugno alle ore 10 Papà non c'era più. Io l'ho visto agonizzare ed ebbi tempo di abituarmi all'idea della sua perdita, ma le mie sorelline, Giuseppina e Giacomina, che erano in collegio, a studiare ne subirono spavento; di fatti Giuseppina fu ostacolata nella sua formazione di donna; dopo tredici mesi precisi, il quattro luglio morì anche lei. Io ancora non ero uomo, ero veramente un ragazzo, ma mi son convinto che bisogna abbracciare la croce. Mio fratello Giuseppe, uomo dabbene e analfabeta, mi conduceva come compagno di lavoro, e anche dopo che si sposò, abbiamo seguito per qualche anno la continuità della società facendomi da papà, ma la moglie lo persuase a lasciarmi solo e non volle più sentire di aiutarci l'un l'altro; dal 1912 al 1914 si respirava aria di guerra con conseguenti sconquassi, che solo chi ha fede non perisce; spera nel Signore e non sarai confuso in eterno.
Le lacrime della mia mamma! Ne sento ancora il dolore.
Le sue preghiere e forse gli sguardi della sorellina e del papà dal cielo ebbero tanto frutto di bene; per la mia partenza per la guerra, o mamma, come ti comprendevo! Lasciarti sola! Abbandonare la campagna, gli animali da lavoro, i disagi dell'ottobre 1914 per la mia partenza per soldato, le terre coltivate a metà. Si parte per Agrigento quasi a piedi; volle venire mia madre con un carretto carico di olio e altro; c'incamminiamo di buon mattino versi Girgenti un po' in carretto (Venezia Michele) e un po' a piedi, impiegando un giorno, all'indomani, dopo aver pernottato, dovevo presentarmi alla partenza perché ero già assegnato all'8° artiglieria di campagna Verona. Ti ricordo sempre, mamma! Per me quella notte fu straziante, volevo disertare o procurarmi dei mali per non partire e non vederti così addolorata, sembravi la stessa Addolorata, non sapeva a chi scoprirsi le ginocchia e chiedere aiuto e grazia per non separarsi da quell'unico conforto che già si preparava al distacco. Locanda Zì Pepé Bibirrìa: quella signora locandiera forse pure pianse. Appare un uomo dai baffi neri, viso rotondo serio e deciso: è il signor Levetere. La locandiera Bedda Signura a ssu cristianu av'a priari si voli essere aiutata pi so figliu. MI sembrò farsi le ali la fiduciosa mamma; ma io di botto, in mezzo alla strada: «Signore, non l'abbia a male, gli vorremmo parlare.»
Rispose: «Venite con me.» Aveva comprato roba da fumo e lo seguimmo salendo un'alta scala, abitava di fronte al palazzo vescovile e in casa trovammo una santa signora che impastava il pane per i sei di famiglia.
Oh fiduciosa mamma! Dopo aver aiutato Donna Carolina all'allestimento di quel pane, già questa divideva con mia madre il dolore, pregando non più mia mamma sola, ma anche Donna Carolina. Vedi cosa puoi escogitare per non far partire, stu fighiu, Lilli, vidi comu po fari, lassaccillu stari pi nautru pocu.
Ma cosa c'è da fare? Volle sapere in tutto e per tutto la mia posizione; poi mi separai dalla mamma per rivederci chissà quando.
Con il signor Lovetere ci siamo avviati al distretto, mi consigliò: «Presentati che vediamo». Mi da gavetta, borraccia, berretto ecc. Alle due pomeridiane si parte. Certo che chi è giovane non sente dolore perché è forte, ma io avevo in mente mille pensieri. Giù, ragazzi, si parte! E incominciano ad inquadrarci e ad avviarci dal distretto alla stazione di Agrigento Basa. Mentre si marciava, vedevo correre a piedi velocemente un soldato. - Esca fuori la recluta Guddemi Vincenzo. Con il viso di fuoco mi presento. - Sei voluto al distretto. In compagnia di quel militare mi avvio e riconsegno gavetta, berretto ecc. Viene trattenuto il soldato Guddemi…in attesa… e assegnato alla terza categoria. Fratello maggiore disperso all'estero, il secondo al lavoro proficuo…
Come si pianse per il dolore, così si pianse pure di gioia.
Volo dove lasciai mia mamma con quella signora a ridire l'accaduto. A buon intenditor… Beati voi che piangete, presto riderete. Ebbi tanta riconoscenza per quel benefattore e ancora nel mio cuore tiene il posto del mio miglior parente.
Rientrato a casa, di nuovo al lavoro, riassettai tutto e preparai l'anno colonico e con una fortuna inaspettata avviai la speranza della semina per il nuovo raccolto.
1915. Una grande cometa che cingeva il cielo da un capo all'altro dell'orizzonte, si presentò al nostro sguardo in diverse posizioni tanto che io tuttora non riesco a darmi spiegazione di questo fenomeno; però fu chiaro che il mondo già era in sfacelo con la corsa alle armi, subendo tutti il terribile flagello della guerra.
Di fatti non passarono che pochi mesi…nella prima decade di marzo quel signore mi scrive così: «Caro Vincenzo, impossibile tenerti in casa, perché gli storpi partiranno per fare il soldato; la guerra è incominciata; ti attendo qui al più presto che anche tu devi partire». Non si ricorse più a proroghe, solo si poté scegliere il corpo dell'artiglieria e il 19 marzo mi presentai a Messina alla cittadella, tutta diroccata dal terremoto. Oh vedere quella città! in uno sfacelo di macerie inorridiva il cuore! Abitai in una baracca di legno. Oh quante cimice!
Dopo pochi giorni fui assegnato alla 12^compagnia-campo inglese nelle montagne sovrastanti Messina. Ci esercitavamo su cannoni di diverso calibro, maggiormente su quello con l'obice del calibro 280, una grossa bocca di fuoco.
Mi sentii ritornare ragazzino, non conoscevo ginnastica, ma dopo qualche tempo diventai il più vivo dei primi corridori e saltatori: come istruzione militare ci insegnavano poco. La guerra diventava sempre più sanguinosa in Francia e in Germania.
Ricordo che in un comunicato fu riferito che nei primi combattimenti i francesi ebbero uno sterminato numero di feriti alle gambe, perché portavano i pantaloni rossi; così gli eserciti furono spogliati di tale vestimento e si preparò il grigio-verde che giustamente non dava spiccata visibilità alla persona. La nostra neutralità fu breve, perché la frontiera veniva rafforzata di truppe italiane e le partenze dei giovani avvenivano giornalmente, anche la mia compagnia viene inquadrata e vestita di grigio-verde; l'ordine era di tenersi pronti per la partenza. E' certo che non si pensava più alla famiglia e agli interessi, ma alla vita. Si parte per il fronte! Giorno 14 maggio nel viale di S. Martino migliaia di giovani nella muta notte sono in movimento: si sente un solo tocco al passo militare;  la mattina del 15 in treno per la partenza. Non sio cantava, non si piangeva, ma si pensava.
In ogni stazione ci venivano offerti i fiori di maggio e solo in quei momenti si dimenticava la nostra destinazione. Primo teatro di guerra è Montenero, ivi giunti tra il 15 e il 24. Non è facile descrivere l'agonia della marcia, dopo che lasciammo il treno e avvicinandoci al luogo dove si uccideva…
Al fronte non c'era bisogno che spuntasse il sole per vedere l'aurora di fuoco. Macello umano! Non racconterò nulla, ma ho visto tanto. In primo tempo alle autorità militari avevo detto che reo analfabeta, non so per quale motivo, ma persuadendomi che con la guerra bisogna sapere qualcosa subito comunicai ad un mio caro compagno, che si era specializzato, che io sapevo leggere e scrivere chiedendo che fossi accolto nel numero di coloro che si esercitavano per diventare specialisti.
Oh, fortuna, miracolo! fui accolto e allora con tutto l'impegno possibile studiai e mi specializzai come gli altri che richiesero che fossi istruito. Imparai l'alfabeto Morse e gli angoli richiesti nell'artiglieria, che ancora conosco a puntino le norme per il tiro come un comandante della guerra; maggiormente con il cannocchiale e il binocolo, il cerchio di puntamento, il goniometro e il leografo, il bravo segnalatore in breve tempo avvistava le posizioni del nemico. Fino a questo tempo avevo un comandante capitano un po' duro, che comandava la 12^Compagnia del quarto fortezza, il numero di una compagnia era di 280 uomini di truppa. In tale Compagnia eravamo siciliani e calabresi, c'era da ridere e c'era anche da piangere, 24 della provincia di Agrigento, allora Girgenti. Non è uno sbaglio: Dio fa gli uomini  e fra loro si accoppiano. Ma non così eravamo Siciliani e calabresi, che ci guardavamo sempre in cagnesco.
Nei primi giorni del 1916 scende dal 2> Reggimento La Spezia un gruppo di uomini diretto per l'Albania e misto di milizia territoriale e giovane reclute, che andavano ad imbarcarsi da Taranto; ma vi era bisogno di altrei 16 giovani per completare il numero; fra questi 16 scelti per partire vi fui io, forse perché non ero ben visto o ero invidiato. Ci imbarcammo nella nave Principe Umberto. La mia cara sorella Giacomina mi desiderava a casa, perciò un giorno mi sento chiamare dal comandante della Compagnia e mi comunica che la mia mamma era malata e che appena saremmo arrivati a destinazione mi avrebbe mandato ed effettivamente mantenne la parola. L'Adriatico era covo di sottomarini austriaci, eppure nella mia lunga permanenza in Albania traversai ben dodici volte il Canale d'Otranto accentando qualche licenza, ma fui sempre noncurante del pericolo del mare.
Sbarco in Albania. Non si può immaginare l'asprezza e la selvatichezza di quei luoghi. In un gennaio acquoso scendemmo dal pontile dirigendoci verso Vallona; il terreno era paludoso privo di strade, con una laguna malarica e con capanne che facevano capire la nudità di quel popolo abbandonato, vestito di pelli di animali e di qualche tessuto di lana (abbrascio in dialetto siciliano). Solo l'Italia pensò a costruire strade, fontane e bevitoi, che quel popolo non aveva mai visto. Linea di combattimento tra italiani e austro-tedeschi era il grande fiume Voiussa; vi rimasi per ben 48 mesi affrontando grandi e duri sacrifici e per miracolo ho potuto riportare a casa la vita sana e salva non solo dalla morte ma anche da ogni ferita, eppure soltanto di Ribera ne morirono più di dieci. La mia fortuna fu cambiare reggimento: mentre prima ero con siciliani e calabresi, ora passai con dei continentali, veri signori, nel 2> Regg. 58^Compagnia La Spezia HO; il comandante si chiamava Pietro Marzi, fiorentino, in cui trovai un secondo padre; mi volle così bene ed ebbe in me tanta fiducia come se fosse stato suo figlio. Difatti mi ammalai mortalmente e non mi volle mandare all'ospedale da campo, ma mi fece curare dai migliori medici, accanto a lui, nella stessa batteria; e dopo venti giorni di digiuno riuscii a guarire.
Per compagni di tenda trovai dei fratelli: Alessandrello G. Battista, da Vittoria, il caporal maggiore Rizzo Venturino, da Melilli, l'affettuoso Bordonaro Giuseppe da Canicattini Bagni (Siracusa). Per il periodo albanese siamo stati quasi sempre insieme, dormendo sotto la stessa tenda per 56 mesi. Una volta ci costruirono una baracca con il tetto di travi e tavole roberoide, ma il 31 ottobre in una notte un vento di levante fece letteralmente volare il tetto, fortunatamente senza nessuna vittima. La guerra la posso racontare meglio di ogni guerriero, perché ero nell'osservatorio e avevo cannocchiali adatti, che a distanza di svariati chilometri si riusciva a distinguere il borghese dal militare, il cavallo dal mulo. Due volte sole portai lo zaino sulle spalle; ebbi il grdo di caporale degli specialisti; coltivai l'orticello all'uso nostro. L'Albania, terra fertilissima con acqua abbondante, produce tutto; il suo clima è quasi come quelo della sicilia, montuosa con abbondante pastorizia e greggi di pecore. Imparai in qualche modo a parlare l'albanese; anche quella povera gente mi volle bene; esisteva lo sciacallo, il lupo e la lepre in abbondanza in tutto il territorio dal confine greco alla Serbia e alla Bulgaria, contro cui eravamo in guerra. l'Epiro albanese è montuoso e con tanti sacrifici gli Italiani costruirono strade rotabili da Valona a Salonicco. Non racconto nulla, ma ero devoto alla Vergine Immacolata e di Santa Rosalia e ricevetti molti miracoli, specialmente nei vari tragitti marini dal 24 maggio al 4 novembre, non mancai mai all'appello; nel febbraio 1918 lasciai la vita militare con l'esonero e sono rientrato in famiglia come quei pellegrini che tutto trovano sconvolto.
Oltre alla guerra si è dovuto combattere con la peste mondiale: la febbre spagnola, che fu la strage della morte in tutto il globo terrestre. Dopo la perdita del papà e della mia cara sorella Giuseppina, si ammalò con la febbre spagnola la beniamina Giacomina, che dopo che si era diplomata da tre anni aveva trovato lavoro come maestra della seconda classe ebbe in sorte la morte, perdendo il frutto di tanti sacrifici sostenuti dalla famiglia per farla studiare al collegio Giusino di Palermo; io nella vita militare non osai mai chiedere denaro a casa, perché sapevo che il poco denaro serviva per la cara Giacomina; le lettere dell'amabile sorella mi gridano ancora all'orecchio affettuosità ed amore.
Anno 1919. Trovai le cose sottosopra a causa della sua morte; nessuna risorsa, c'era solo un'asina e una mula “faza” e diverse volte ho messo la vita in pericolo; mia madre in società con mio fratello Giuseppe e Leonardo Palermo coltivavano una tenutella; Oh, cattiva e sterile tenuta! Avevo intenzione di fargliela lasciare, ma i padroni: «Picciotti, coltivatela ca sempri ci ataghiri a lu  mulinu». Non fu così; al momento del raccolto hanno messo la guardia e ci portammo a casa quelle che si è potuto rubare, ma pagando la gabella siamo rimasti a mani vuote.
Anno 1920. Oh carestia dolorosa! mi ero messo al lavoro con tanti impegni, ma non pioveva ed aumentava la disperazione. La siccità fu così generale che nel mese di marzo le campagne furono lasciate come pascolo per gli animali. Io fui fortunato ché trovai da seminare un pezzo di terreno a mezzadria alle Giraffe (terra sott'acqua) presso un galantuomo, Luigi Tavormina; così ebbi modo di raccogliere un po' di grano e la paglia, grazie alla Divina Provvidenza e alle preghiere delle mie sante sorelle morte. IL signor Tavormina aveva una mulacciuna tra i due e tre anni e lo pregai che me la vendesse e il mio desiderio si avverò. Ecco come spuntò la mula di nome Pulita, che condusse tutti i miei figli al lavoro. Il prezzo fu di £2.200 che a stento ho potuto pagare, perché mia madre dissestata finanziariamente per la morte della mia povera sorella non mi poté aiutare tanto all'acquisto di detta mula.
Anno 1921. Le campagne dettero un buon raccolto, quello che non si raccolse l'anno della siccità e durante l'anno mi comprai un'altra mula di nome Castagna, e così io e le due mule, tutte e tre giovani si correva come si voleva.
Anno 1922. Fu l'anno in cui ho sposato la mia cara Marietta, il 22 aprile; e subito cominciai ad assumere impegni, vendendo due case, una mia a £ 13.000 e l'altra di mia moglie a £ 9.000. Siccome erano in vendita i quattro feudi: le due gulfe, castellana e camemi, preparai il denaro per fare acquisti. Comprai granaro, tumoli e castellana, il castellazzo e cinque tumoli accanto alla dote di mia moglie a Piana grande da Serafino Garamella. L'acquisto dei quattro feudi fu fatto dai combattenti del '15-18 presso il Duca di Bivona. Ma la cooperativa Cesare Battisti non poté far fronte alle spese e allora ci venne in aiuto il dott. Gaetano Vella, insieme al quale io ero amministratore e liquidatore della cooperativa; di fatti tutti gli atti dei quattro feudi e del Verdura dà poteri eredi a Calogero Parlapiano e alla moglie sig. Zanelli.
Anno 1923. Nei primi di gennaio nasce il primo dei miei figli, Calogero. L'annata non fu abbondante e si cominciò a trascinare la povera vita. 
Anno 1924. Uguale al precedente e siccome restavano molte terre a pascolo, ne seminai sei salme e mezza.
Anno 1925. Nel gennaio si mise in vendita il feudo del caminello re si dette il caso che mi impossessai di mezza salma di terra, seminandola a cotone; quindi seminai sette salme di terre con un solo aratro e venne una buona annata, consolante di un buon raccolto con una pioggia abbondante il giorno del sabato santo. Nasce Matteo.
Anno 1926-27. Ho fatto società con don Vincenzo D'Angelo di Cattolica Eraclea. Tutto il feudo di cuci-cuci, 112 salme, lo gestimmo in affitto per due anni con un equo guadagno, ma siccome le leggi di Mussolini non permettevano il sub-affitto lo abbiamo ceduto di nuovo ai proprietari, chiamati Cavalieri, i sigg. fratelli Borsellino. Si da il caso che detti proprietari si affezionarono alla mia persona e la mia fiducia e mi vollero dare come socio mio cognato Santo Palermo, Antonino Palermo e Giuseppe Smeraglia, una bella compagnia, che durò dieci anni; divenimmo tutti compari e oltre a cuci-cuci coltivammo tutte le isole del dott. Gaetano Vella per pochi anni. In questo periodo nasce Giacominello (1926) e nel 1929 il laborioso Giuseppe. In quest'anno stipulo l'atto del Granaro e della terra delle Giammariti, due belle chiuse che mi aiutarono tanto a portare la croce della famiglia. Comprai quattro tumoli di terra a Bellanca e i miei figli conobbero ogni abbondanza di frutti; ogni mio nato vi aveva la sua pianta di fico. In seguito si verificarono annate poco favorevoli, ma a dire il vero, l'anno che ci ha messo con le spalle al muro fu il 1931. Il 20 febbraio ci colpì un grande ciclone e più di dieci salme di terra da me coltivate non fruttarono niente, e n,el 1932 non potei pagare gli interessi a chi mi aveva soccorso e per giunta avevo pregiato (garantito) quei quattromila lire a due individui e le pagai di tasca mia, perché i creditori non ebbero clemenza, bontà, anzi approfittarono l'occasione per farmi cadere in fallimento dopo il disastro della cattiva annata.
Coraggioso, fidente nella Divina Provvidenza in quel mare burrascoso per tutto il 132 lottai senza posa, che per diverso tempo di insonnia e la notte mi svegliavo stanco, che per quei terreni non bastava il lavoro del giorno ed idem della notte. Oh! anno 1932, anno santo per me, un favoloso raccolto in quelle stesse terre danneggiate; per miracolo non coprii subito il vuoto (del debito). Nasce mio figlio Salvatore, il quinto, con un dente, segno di felicità.
La mamma lo nutrì con il suo latte per cinque mesi; ma nel luglio si ammala mia moglie di anemia e non le è più possibile allattare il suo figlioletto; si ricorre alla nutrice (nurrizza) e viene allattato da una mamma e sua figlia, che avendo da nutrice i loro figli, a stento poterono aiutarlo. Ma dopo quattro mesi ho comprato una capretta e così fu risolto il problema di assicurare la vita di Salvatore e non ci fu bisogno di altra nutrice. Il male che colpì mia moglie non fu passeggero, ma per diverso tempo della sua vita, ad intervalli, rimase soggetta a simile sofferenza. Dopo tre anni viene alla luce la cara figlioletta Maria. Fu nutrita dal latte della sua mamma fino all'ultima goccia. Nel 1933 l'arciprete Licata vuole ripristinare la festa del SS. Crocifisso, che era stata abbandonata, e mi chiama per aiutarlo a riprendere la festa; io accettai con devozione e fede malgrado le difficoltà la festa riuscì benissimo.
Mi successo compare Domenico Ruvolo e altri per un trentennio aiutati da compare Gaspare Miceli, persona devota e impegnata, e da allora i festeggiamenti del SS. Crocifisso sono continuati. Mi riservo di aggiungere che “chi ha fede non perisce”; non sono mancati miracoli a catena, nonstante le guerre che da quella del 15-18 si sono susseguite; quella d'Africa, della Spagna e la seconda guerra mondiale.
Nasce la settima figlia coronando la numerosa famiglia e ottenendo la completa esenzione delle tasse; vive più di un anno senza latte né di mamma né di nessun'altra, avendone cura la cara sorella Ninetta, che fece da seconda mamma di tutti i miei figli.
Il lavoro fu il mio compagno, facendo sempre più del necessario in tutte le imprese. In quest'opera feci società con il signor Vincenzo D'Angelo da Cattolica Eraclea nell'acquisto del feudo di cuci-cuci in affitto, ma dopo due anni per le leggi mussoliniane, che proibivano di affittare per subaffittare, finì anche questa società. Ne iniziai un'altra a quattro: io, Palermo Antonio, Smeraglia Giuseppe e Palermo Santo, mio cognato; durò dieci anni con buoni e fraterni rapporti sino alla fine; di fatti siamo divenuti tutti e quattro compari; io ero il più giovane e non si dubitò mai l'uno dell'altro, ma non ero contento di fare l'agricoltore.
Si vendevano terreni fabbricabili e ne acquistai un po', ma siccome compare Salvatore Garamella aveva il vizio del gioco, non potemmo andare d'accordo ed anche in questa impresa, appena iniziata finì, riservandomi lu firriatu e lu trappitu per i miei bisogni.
Il motivo della rottura della fiducia fu il fatto che gli avevo rilasciato una cambiale e se la fece vincere al gioco dal Catarinaru, che vista la mia firma apposta alla valuta la protestò ecc. Finisce ogni società e mi restringo al lavoro agricolo, mentre i miei figli cominciano a crescere con poche nozioni scolastiche, ma GIacominello, per consiglio di Gerlando Contrino, si prepara a studiare presso i salesiani di Pedara (Catania) da costì passa a Modica con un cugino dello stesso nome, ma questi non continuò e ,si fece dottore in medicina, mentre il mio GIacominello continuò per lavorare nella vigna del Signore. Abbiamo incontrato i disagi della guerra 1940-45, ma per fortuna la mia famiglia non è incorsa in disgrazie anche perché l'invasione è stata senza lotte e resistenza militare. Nel 1941, il primo giugno nasce l'ultimo figlio, Nino, l'eccellenza gigantesca, bello distinto fra tutti i bambini di quell'epoca, altezza un metro e dieci centimetri, visse quasi tre anni, fu la pena di chi lo conobbe, la mia tuttora è viva, mi duole di averlo perduto senza malattia, per le prime fave verdi con l'ittere prematura; entro 48 ore passa dalla vita alla morte; pena grande non poterlo salvare tutti i medici di Ribera.
Negli anni della guerra nasce la pastorizia a S. Pietro  e grazie a Dio non finì male; ho avuto come compagno compare Paolo Tortorici e ho dovuto sempre fare da scudo ai vari compagni, perché ero il più ben voluto. In questa occasione iniziai la lunga carriera di presidente della cooperativa, avendo sempre la speranza di portare avanti la numerosa famiglia, aiutata dalla divina Provvidenza e fidente nel volere dell'Altissimo: undici a tavola, bene. In questo frattempo (alla fine della guerra), con il compare Paolo presi la via tortuosa dell'oleificio (oh, mai fosse stato!); la Francesca nel suo racconto dice: “da quel giorno non leggemmo avanti io venni meno come se morissi e caddi come corpo morto cade” (Dante).
L'oleificio è stata un'impresa, che mi ha portato una serie di affanni, e dopo compagni su compagni finì che… fai l'arte che sai, se non arricchisci camperai. Come secondo compagno si presentò Caico Salvatore, Ladruncolo intelligente; quando vide che poteva imbrogliare, cominciò a masticare; non si fermava alle modifiche, ma per i suoi tornaconti agiva sottobanco con i venditori: ditte Breda, Veraci, Crispi Calogero, avendo accanto all'oleificio un locale, si fece entrare come quarto compagno e le cose camminarono in bene, ma per breve tempo, giacché un bel giorno il famigerato Caico, che non aveva mai visto guadagno, di punto in bianco si vendette la sua quota al sig. D'Azzo Giuseppe e con lui entrò lo sfacelo nell'oleificio: con compagno D'Azzo tutto andò sottosopra; diffamava se stesso e i soci.
Ci fu un ammmanco in una casella n. 17, io la celai e risarcii il cliente Tallarita. Il D'Azzo mise ingiustamente in giro che era il mio furto a quella casella… una serie di male azioni.
Questo tale acquista con contratto una pressa del prezzo di tre milioni; non volle costui farla lavorare nell'oleificio di Ribera, rifiutando il convenuto patteggiato con la ditta Verace. Con la garanzia di Liborio Guarraci a Sant'Anna un oleificio da fare affari buoni e vi istalliamo la pressa Verace, su cui avevamo contrasto. Si fa simile affare con tanto danno, ahimé! Il paese di Sant'Anna è poverissimo e per i tre compagni Guarraci, Tortorici ed io il secondo oleificio presto si infettò di quella povertà, sicché si ricorse ai ripari, perdendo il meglio. Subito si cercò di fuggir via, svendendo tutto e accollandomi ogni perdita.
Ripresi con i miei figli la via della terra, che con forte lavoro e buone attitudini nostre a tale tipo di lavoro sortiva fuori il meglio e il necessario, accompagnato dall'aiuto della divina Provvidenza. Un incontro con Giordano Pasquale e un certo Porrello Amedeo, mediatore delle terre di Vizzì, si concluse con degli assalti al negozio da parte di gente non di buona condotta e così ho dovuto dare una parte a loro, dividendo le terre in tre quote con Tortorici ed io. Il negozio si concluse a £ 53.000 tumolo e con ansia e travagli si ottenne il possesso da chi l'aveva in affitto. Della mia quota di cinque salme, ne ho data una salma a mia sorella Vincenza e due salme a mio figlio Matteo per il suo matrimonio, dotandole alla figlia di Giuseppe Colletti.
Dopo anni Miceli Gioacchino vendeva una salma e mezza dello stesso Vizzì e un certo Rizzuto da Cattolica vendeva una salma e mezza a cucicuci; le comprai, cedendone 12 tumoli a mio figlio Calogero con la speranza di un contributo dalla Cassa del Mezzogiorno, che finì con la mezzanotte con tanti guai, sicché per liberarmi dai debiti e dai danni arrecatimi dovetti vendere quattro tumoli di terra a Bellanca… La pace sia con vio disse Gesù agli Apostoli; così con la vendita di Bellanca venne la pace nel mio cuore…
Non parlerò più di altri impegni… mi fermai facendo un nuovo impianto a Bellanca, nei quattro tumoli rimastimi, e spero che sarà il vero bastone della mia vecchiaia e dell'abbondanza per i giorni che ci consentirà il Sommo Signore.
Avrei bisogno di continuare, ma mi fermo alla data in cui sposai i miei figli con tanto amore di garantire con adeguate premure il loro avvenire, sicché spero che nessuno avrà diritto di lamentarsi né con la moglie né con i familiari, perché tutto corrispose al meglio e alla mia buona volontà, accollandomi per ognuno ogni spesa e ogni gravezza con amore affettuoso.
Spero che alla fine non malediranno l'operato dei loro genitori, che seppero allevarli con cristiana prontezza. Non diranno altro se non che mancò mai il necessario, anzi con l'aiuto divino hanno avuto l'abbondanza, uniti alla mia mamma; che non si accorse della sua vedovanza; ed anche mia sorella Antonina, seconda mamma dei miei figli, è voluta bene da tutti, perfino dai nuovi nati, perché in quell'abbondanza di cui gode, ha sempre qualcosa da dare per farli contenti; elle è l'uguale padrona di ogni cosa, che abbonda in comune nella casa che comunemente abitiamo.
Non voglio continuare dopo queste pagine del presente quaderno scritto a modo mio; il vento della vita comincia a soffiare un po' infido!, a motivo che la salute della mia colomba senza fiele, della donna mia, della mamma buona dei miei figli… Dopo la nascita di Salvatore cominciano le balie…

LA STORIA DEI QUATTRO FEUDI
Fine della guerra 1915-18 ; 4 novembre
Nel 1919 i combattenti rientrando formano la Cooperativa Cesare Battisti con a capo come presidente Paolo Perricone e il relativo Consiglio di amministrazione…
Esisteva nel paese un'usura insopportabile; nel frattempo viene come arciprete D. Nicolò Licata, uomo profetico e saggio, conoscitore profondo dell'usura; raduna un gruppo di agricoltori: famiglia Ganduscio, Marrone ed altri e da buon pensante crea la banca di S. Gaetano; ecco la prima caccia all'usura e al feudalesimo, il colosso temuto dai bravi riberesi. Non si usavano mezzadrie, ma fitti di feudi di proprietà del Duca di Bivona, lo spagnolo Alvarez di Toledo, ma amministrati tanti da Palermo che da Ribera, dove fu amministratore Pietro Ciccarelli; la casa ducale era accanto al cinema Vella. Da tale amministrazione veniva creato un vasto vigneto nel feudo Camemi, ben tenuto, formato dalle prime barbatelle americane. Il vino di primissima qualità veniva raccolto e immagazzinato presso la casa ducale, ove abitava Ciccarelli Pietro.
Tutte le contrade possedute dai vecchi riberesi erano sottoposte al censo. Tale censo (cinque lire al cento) con un'ultima rendita alla Madre Chiesa alle porte sud di Ribera con il nome Pantano fu ceduto a favore del protettore San Nicolò e veniva chiamato non censo ma legato pio. A questo punto l'arciprete Licata prese atto della cosa e tutto il terreno del legato pio fu assegnato e venduto alla famiglia Ganduscio, che tuttora possiede.
Primo feudo: Piccirilla, si vende appena finita la grande guerra con lottizzazione popolare. I combattenti reduci, scarni e laceri gridano che vogliono la terra. L'onorevole Angelo Abisso di Sciacca, parente della famiglia Liborio Friscia, si mette a disposizione della nostra cooperativa Cesare Battisti, facendosi ottenere l'intervento dell'Opera Nazionale per ottenere quattro feudi: Ulfa panetteria; Ulfa Giummarella; Castellana e Camemi.
La grande guerra decimò il meglio, il fior fiore dell'umanità, che combatté il nemico con mezzi di linea così inefficienti che reggimenti e reparti venivano inghiottiti in pochi istanti. Quando si stava mettendo alla guerra la parola fine, si scatena per tutto il globo la febbre spagnola; nessuno può descrivere la mortale pestilenza, non bastarono ospedali né campo né civili. Ritorniamo all'affannato Ribera, il cui territorio nell'agrigentino appartiene alla fascia litoranea più calda della Sicilia, essendo la più vicina d'Africa. Il famoso 1920 tutti i superstiti della guerra, con addosso un'arsura di lavoro, cercavano a qualunque costo un posto di lavoro per rifocillare e portare il pane ai loro figli.
Eravamo arditi della guerra e con lo steso ardimento ci siamo messi al lavorare ogni zolla di terreno per recuperare il tempo perduto. Non piove abbastanza per dare inizio alla semina, ma in qualche modo si seminarono per intere tutte le colture.
Ahimé! la siccità totale! Spunta il sole di primavera e brucia tuti i cereali di quella litoranea, solo la parte montuosa produsse in qualche modo. Dovendo poi acquistare a suo tempo qualche salma di grano in detta zona montuosa, il povero compratore dopo averlo pagato a £ 500 veniva anche derubato dell'animale che lo trasportava. Povero disperato combattente! Ma essendo giovani si ricominciava, vivendo sempre nella tenace speranza.
Anno 1921 fu fertilissimo e venne a ripagare il vuoto della siccità precedente. Gli agricoltori quell'anno abbiamo seminato a squadre di dieci e di venti unità. Avendo piovuto con abbondanza nei primi di settembre, dovunque c'era terreno da seminare, ci siamo messi al lavoro senza più pensare a siccità.
In seguito viene dato il possesso dei quattro feudi, promessi alla cooperativa combattenti Cesare Battisti e si dà inizio alla quotizzazione con la limitazione di non più di mezza salma e man mano vengono assegnate con una specie di sorteggio. Si doveva raccogliere il denaro, che per tutti i quattro feudi raggiungeva la cifra di tre milioni, da pagare rateizzati, secondo accordi presi. Per entrare in possesso bisogna pagare subito il quarto costo dello spezzone in possesso e la maggior parte con il pensiero di possedere la terra fu costretta a vendere la casetta per versare il quarto e cominciare a guadagnare per pagare con il frutto della terra. Già all'inizio del 1920 le file della cooperativa ingrossavano per il ritorno a casa dei combattenti e ci siamo fatti avanti per acquistare due grandi magazzini, accanto al carcere comunale, nella piazza Duomo.
Tali magazzini (Bella fiorita) costarono £70.000 e furono usati come sede della cooperativa C.B., perché si era ottenuto un buon prestito dal Banco di Sicilia. Anche l'arciprete Nicolò Licata con i soci della sopradetta Banca di S. Stefano si dà da fare per acquistare il fondo fertilissimo di Strasatto, che ha come confine il fiume Magazzolo, la strada di Montallegro, Cucicuci e la strada nazionale per Agrigento.
Intorno a questo tempo si è compiaciuto di venire a Ribera il grande Duca dalla Spagna e i ricchi riberesi volevano tentare l'acquisto dei feudi ducali. Ecco come avvennero i fatti: noi combattenti si dà inizio allo sciopero  -che non si chiamò così, ma cinque giorni di bolscevismo- il duca rimane bloccato, prigioniero nella casa ducale, tenuta dall'amministratore dott. Pietro Ciccarelli. Durante lo sciopero vi furono diversi furti e vandalismo, con incendio di alcuni magazzini, di masserizie agricole; le botti piene di quel prezioso vino, perforata da pallottole di pistola; perdettero tutto il contenuto.
Questi erano sciacalli ubriachi e più di trecento finirono in galera. Ma noi si faceva scudo al primo piano, dove era imprigionato il duca. Molti volenterosi e ben pensanti con a capo Accursio Friscia, allontanandosi quei forsennati che mettevano a soqquadro l'abitazione, prelevarono finalmente tutta la famiglia Ciccarelli Pietro mettendola in salvo; altri con fraterno rispetto ci siamo fatti scudo al duca e l'abbiamo portato in trionfo per le vie e soprattutto in piazza, facendolo poi sostare proprio in una cooperativa già esistente, la S. Giuseppe, che risiedeva dove oggi c'è la banca sicula. Il duca diceva di non potersi spiegare bene nella nostra lingua; lo si pregò che si sforzasse e appena piano piano aprì il discorso non ci fu bisogno di interprete; affermò che le sue terre dovevano essere distribuite non ai ricchi ma al popolo di Ribera.
Bello è fidar negli uomini, ma ahimé! quando c'è di mezzo il denaro… Un tal segretario Francesco Valenti… ognuno gli portava, come la formica il quarto della somma per l'acquisto di uno spezzone di terra… ma a chi lo versava? Al segretario senza scrupoli, senza un solvibile cassiere. Quando la somma si fece un bel gruzzolo, un bel giorno si cercò del segretario… già si era imbarcato per gli Stati Uniti, lasciando con la bocca asciutta quei primi volenterosi, che stavano raccogliendo le somme. La speranza si convertì in disperazione e spavento e molti rifiutarono di darsi alla terra.
“Ben sei crudele e non ti duoli…!» Il debito superava le due centomila lire presso il Banco di Sicilia e più di trecentomila se n'era appropriate il famigerato emigrante (una vera confusione).
Molti non pensavano alla terra, ma all'asinello e alla casetta che avevano venduto, restando ora senza terra e senza casa.
Nel Signore è la speranza, non saremo confusi in eterno! Molti furono i commenti; con le mie orecchie sentii un caprione che disse: «Metteteci una lapide a questo Cesare Battisti, non avete scelto bene il nome del combattente martire.»
Quando il mare in tempesta freme, il nocchiere che si abbandona va sicuro a naufragar… un gruppo di volenterosi, che avevano un poco di buona responsabilità, corre da chi poteva aiutarci, gridando: «aiutateci, abbiamo quattro feudi; dopo la tempesta deve venire la bonaccia… » Eravamo già verso la fine del 1923… andammo dall'avvocato E; Gueli, persona di fiducia del grande dottore Gaetano Vella; egli ci interroga: «cosa avete, giovanotti, che vi vedi stravolti e preoccupati?» «Avvocato, per mezzo del dott. Vella ci deve aiutare». Gli si raccontò tutto e rimase tanto addolorato; ci fece tanto coraggio e ci presentò al dott. Vella.
L'incontro fu duro, non come colui che piace e dice… «Voscenza ci deve aiutare… è un peccato perdere li megli feudi di Rivela…» Temporeggiò un poco; scaltro ed esperto di affari capì la ricchezza dei quattro feudi. Incoraggiò il gruppetto, come suole fare chi è sicuro di sé, e battendomi la spalla disse: «State sicuri che i tre milioni ci sono e tuto pago io; però bisogna liquidare la Cesare Battisti.
Nessuno volle fare il liquidatore; era una liquidazione facile. L'anno 1924 si quotizza definitivamente la Cesare Battisti sotto la cura dei tre liquidatori: Guddemi Vincenzo, Di Leo Giuseppe e Parlapiano Biagio, tre contadini arditi di fronte alla massa… A questo punto il dott. Gaetano Vella, salvatore dei quattro feudi, si stringe a noi tre e ci chiama: ecco il mio stato maggiore! Si da inizio alla distribuzione della terra e a chi aveva la buona volontà di insediarsi nello spezzone di terra veniva dato un aiuto straordinario: non più il quarto del costo, ma un'anticipazione secondo le forze, che veniva chiamata caparra.
Alla benignità del dott. Vella per la rimanenza bastava firmare una cambiale con il minimo tasso d’interesse. Con il solo assiduo lavoro, dalla stessa terra in breve tempo tutti poterono pagare, tutti divennero proprietari, grazie alla divina provvidenza. Questa fu la leva di ricchezza per il laborioso contadino di Ribera, che marciò per tutti i feudi, mentre prima il paese era quasi imprigionato nella morsa del latifondo feudale e non gli era permesso mettervi piede né per un fascio di legna né per raccogliere verdura alla fame dei poverelli. Ora sono tutti coltivatori diretti di un territorio ricco e fertile, che sembra una terra promessa.
Dopo i quattro feudi, si presenta il quinto feudo, il Verdura che si estende lungo il fiume al mare, con una costiera fertilissima, che assicurò la ricchezza dei giardini (canna granne, canna masca, spatolilli). Dal feudo Verdura erano proprietari i vecchi Parlapiano, che lo danno a un vero nipote ereditario (Lillì), che era l’unico erede universale del fratello Francesco, che doveva continuare la grande famiglia.
Ma Lillì non volle sposare la ragazza che gli zii pretendevano e sposò una ballerina, la signora Fanelli, che negli atti risulta Leotta. A questo colpo di testa, a questa rivoluzione di matrimonio non voluto dagli zii, il signorinello Lillì cadde di colpo da erede universale e venne scelto il figlio della sorella, Vella Parlapiano Antonino, chiamato Nené dal vecchio zio Nené, onorevole e Sindaco di allora.
Lillì ebbe il feudo rispettabile del Verdura, un vero tesoro. Dalla ballerina ebbe due maschi, che morirono in età non matura; nella stessa epoca viene affidata al dott. Gaetano Vella la vendita del Verdura, aiutato da noi liquidatori con la quotizzazione attuale dei contadini di Ribera.
L’arciprete Licata, uomo posato, seppe stringersi agli agricoltori abili e laboriosi e anche lui diede l’assalto al rimanente feudo del duca di Bivona, il Camimello-Corvo e aggregati di bel monte alle porte del paese. Corri contadino di Ribera, sei già proprietario di tutti i feudi del duca di Bivona. In pochi anni di sudato lavoro, quelle vergini terre,  che non conoscevano il vero padrone, oggi danno oltre il pane ogni ristoro e soddisfacenti vigneti, oliveti e agrumeti.
L’ex feudo San Pietro viene condotto in affitto dalla cooperativa S. Giuseppe; per motivi di gestione poco sana, anche questa sta per crollare. Ed ecco l’intervento della cooperativa la Bonifica, presso gli Ospedali Civili di Sciacca, che toglie il deficit creato dalla detta cooperativa S. Giuseppe, accollandosi ogni impegno. Raccoglie i volenterosi soci della S. Giuseppe e così incomincia la nuova marcia per le lande deserte, coperte qua e là di pama nana. Quasi cento ettari di di dune, che la salsedine marina rovinava, vennero bonificati. Per difendere le colture, si richiamò l’attenzione della forestale per l’imboschimento della zona litoranea del feudo per la durata di dieci anni; invece non fu così. Gli ospedali civili, senza pensare alla Cooperativa vendettero alla forestale tutta la striscia dunosa per poche lire ed attualmente sorge un rigoglioso bosco, che è tanto importante per la panoramica del feudo e per la salvezza delle colture e ridosso dalla salsedine.
Santo Pietro oggi Borgo Bonsignore, tu senza strada, tu senz’acqua, tu senz’acquedotto, tu senza case sufficienti per rimanere a dormire e a lavorare con la creazione di tucul ecc.
O emigrato in America, vieni a vedere, dopo quasi quaranta anni di lavoro, vieni vieni, non riconoscerai più quella landa deserta, non vedrai più quella palma nana, che veniva estirpata con il piccone, vieni a vedere dai tucul le case che sono sorte! Oh! amministrazione tenace e laboriosa! Inizia l’amministrazione del defunto Castrense Marrone; lo sostituisce per poco Paolo Tortorici e Calogero Coniglio. Dopo eco che s’insedia l’indefettibile Presidente Vincenzo Guddemi, proprio all’inizio della seconda guerra mondiale, con cura del feudo Camimello e aggregati di bel monte. Nella cooperativa trova posto un buon gruppo di soci quasi cinquecento, essendoci spazio tanto in proprietà quanto in affitto del feudo Santo Pietro; con l’affitto si intendeva aiutare i più poveri ad ondate per resistere alle spese del dissodamento delle terre vergini di Santo Pietro. La cooperativa La Bonifica oltre alla guida dell’arciprete Licata ebbe la direzione del nipote rag. Franco Di Leo, giovane ardito, abilissimo condottiero, moralista e artefice di tutto, prezioso politico, che con i suoi contatti con il fascismo dell’epoca, dal paese fino a Roma, trovava tutte le porte spalancate; acquisto macchine, trebbiatrici… Non più la Banca S. Gaetano, ma creazione di una Banca popolare, che unita alla cooperativa acquistò ogni prestigio; contributi per progettazione strade dalla provincia al feudo. Creazione del Borgo Bonsignore con la costruzione di più di venti case coloniche, con un caseggiato centrale che serviva da caposaldo del feudo, con attrezzature meravigliose con cui si diede inizio a impianti di vigneti, oliveti e frutteti ecc. Oh anni brillanti! Si ottiene un fido dal Banco di Sicilia, acquistando fertilizzanti, concedendo credito ai soci bisognosi di prestiti per acquisto di animali sementi e ogni fabbisogno per i singoli soci.
Durante la seconda guerra il feudo cominciò a sentire il vuoto di tante bracia per la chiamata alle armi di tanti soci sicché molti terreni restarono incoltivati e si potevano usare solo per pascolo. L’indefesso presidente Vincenzo Guddemi con l’animo sospeso per un’eventuale chiamata alle armi fortunatamente rimase escluso, la chiamta arrivò proprio alla classe 1896, esente la classe 1895. Cosa fare allora delle terre incolte? Cercai un gruppo di dirigente con passibilità finanziarie, avendo intenzione di creare un’azienda pastorizia.
Diversi coltivatori dissero di sì, ma quando si trattò di passare ai fatti la maggior parte si ritirarono. Ardito e coraggioso in merito fu il consigliere Tortorici Paolo, che insieme a me e al rag. Franco Di Leo (uno dei fratelli) demmo l’assalto alle fiere del mercato acquistando animale bovino ed ovino e un certo numero di scrofe, che ebbero molto rendimento nel’azienda.
Con molti sacrifici si portò avanti per tutta la durata della guerra. Finita la guera si pensò di sciogliere la società per dare posto ai reduci,, ridonando loro la terra del feudo. Si dà corso ad un vasto impianto di vigneti nella striscia dunosa, che per miracolo non fu la tomba della cooperativa, essendo soggetta ad un insetto, che rodeva anno per anno le viti impiantate; era il maggiolino e la piccola lumaca. Non ci davamo pace ma ahimé non c’era niente da fare. Si va a Palermo all’ufficio sperimentale per fare analizzare e trovare l’antidoto della terribile cancrena di insetti. Venne una Commissione di Palermo sul luogo e si portarono in scatoloni il maggiolino per gli esperimenti. Dopo un accurato esame fu trovato un medicinale asfissiante, che purificò il terreno e oggi in quelle zone sorgono i migliori vigneti, ove un tempo c’erano dune, chiamate “rini”.
Dopo la scoperta dell’efficace medicinale, il paziente Guddemi Vincenzo riuscì ad incoraggiare ed a far completare l’impianto di rigogliosi vigneti.
Finito il terrore della guerra, la cooperativa gestiva il feudo a gonfie vele. Il rag. Franco Di Leo con l’orgoglio di buon amministratore si invaghì della forza delle nostre armi di voto e si decise a presentarsi alla candidatura regionale riuscendo eletto onorevole. Con la sua elezione alla Regione Siciliana si comincia a fermare l’orologio della cooperativa.
Entra l’invidia, entrano le persecuzioni, le ingiuste ispezioni e dopo i miei vent’anni di presidenza si rende necessaria la dirigenza commissariale. Povera cooperativa “La Bonifica!” Chiede la giusta causa dei bei cento ettari di dune cedute alla forestale, esigendo estaglio ingiusto pagato. Si forma politicamente un triunvirato nella decisione della causa e la brillante cooperativa viene condannata a tredici milioni di spese da pagare, ma poi aumentò di molto per il tasso di interessi, tanto che i soci si domandavano: Che cosa è successo, chi è stato a commettere l’ingiustizia?
Concludendo, dal primo contratto con gli Ospedali Civili di Sciacca fino all’atto di proprietà, vi furono proroghe di legge che ritardarono molto l’iter, ma con tenacia, pazienza e molti sacrifici si ottenne una legge, che dava diritto di possesso a chi da trent’anni aveva fatto opera di trasformazione e così malgrado molti bastoni fra le ruote ogni possessore di terra nel feudo resterà proprietario con atto stipulato dinanzi al notaio.

PENSIERI
Figlio, durante la tua vita metti a prova l’anima mia. Guardati da quel che le è nocivo…
Non si sazia l’occhio di guardare, nemmeno l’orecchio di udire.
Principio di ogni impresa è il raziocinio e prima di ogni azione la riflessione.
Prima ricorri a Dio e poi al medico e alle medicine; chi pecca contro il suo Creatore cadrà nelle mani del medico o del nemico.
Radice del pensiero è il cuore, da cui spuntano quattro rami: il bene - il male, la vita - la morte.
Il savio ha gli occhi in fronte, ma lo stolto cammina al buio.
Se un mangia e beve e gode del suo lavoro è un dono di Dio.
Non c’è uomo giusto al mondo che faccia il bene e non pecchi.
Chi è grato a Dio ne può scampare, ma il peccatore ci resta preso.
Né l’amore, né l’odio: sono ciechi al pari della sorte.
Il vino rallegra la vita - il danaro a tutto ripara.
Non aspettiamo la vecchiaia per darci a Dio. Ricordati del tuo Creatore nei giorni di tua gioventù. Temi Dio e osserva i suoi comandamenti: questo è il tutto dell’uomo.
Amore cieco a tutti in tutto!
Non mai esitai dinnanzi al mio destino. Ho raccolto a zaino pieno, ma non volli mai saziarmi. Ogni impresa mi sembrò leggiera…
Tutti i gusti ho voluto assaporare, ma soltanto l’onestà e il lavoro furono miei amici.
O Signore, quanto aiuto ho avuto da Te; nella povertà coraggio e salute, nel dubbio e nelle difficoltà sproporzionata forza di bene di affetti di compagnia di superiorità.
A Te, o Trinità beata, lode e gloria e riconoscenza!

Veneriamo Maria, la madre di Gesù; nessuna creatura è più grande di Maria, Regina degli Angeli, degli Apostoli e di tutti i santi.

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