sabato 23 novembre 2013

Vincenzo Guddemi è nato a Ribera il 13 marzo 1895 da Calogero e Giuseppa Maria Garamella, sposato pure a Ribera il 23 aprile 1922 con Maria Garamella (nata il 18 novembre 1901 - morta l'11.10.1975) di Matteo e Onofria Cufalo. Muore il 21.12.1976.

Foto Vincenzo Guddemi e la moglie Maria Garamella


Pubblicato parzialmente in Momenti n. 257 (integralmente)



Protagonisti della Storia di Ribera: Vincenzo Guddemi

La storia dei quattro feudi


Preghiera: Io voglio compiere questa azione, o mio Dio, perché Voi la volete e come voi la volete, per vostro amore e per la vostra maggior gloria.
Datemi, o Signore, la grazia necessaria per compierla.

Vorrei scrivere nel mio povero stile il mio diario a ricordo della mia povera vita, cominciando dai primi ricordi, da piccolo, fino all'età presente.
Terzo Vincenzo della mia famiglia (primo-quinto) e il nono dei figli; dopo di me nacquero due sorelline, Giuseppina e Rosina, quest'ultima muore in concetto di santità; le ossa, esumate, riposano nella Gentilizia attuale di famiglia. Giuseppina muore studentessa e Giacomina maestra della seconda classe. Sante sorelle! lasciarono largo rimpianto di un amore affettuoso e fraterno.
Genitori buoni, specie papà, morì per il duro lavoro e l'affanno quotidiano anzitempo, anche a motivo di controversie e afflizioni, arrecategli da un parente vicino di casa per l'eredità della suocera (Vincenza Musso) e per l'invidia di una propria sorella materna, Di Giorgi Rosina.
Questa con un codicillo, aggiunto al testamento, martirizzò la nostra famiglia, provocando dissesti e discordie, onde venne lo sparentamento completo, sempre imprecando contro il male fatto dalla ruffiana sorella, che non lasciò nemmeno la leggittima della proprietà né denaro alla cara mamma. La chiamarono "litigante".
Il mio primo ricordo è dell'agosto 1988; mio fratello Gioacchino spara una sola fucilata al balcone contro un nostro parente vicino malefico nella via Colletti; la palla colpisce la bacchetta di ferro lasciando vivo ma ferito il parente; come condanna mio fratello ebbe sei anni di galera e in seguito a tale condanna si è perduto per tutta la vita; a causa del carcere in età molto giovane (19 anni) e di altre imprudenze giovanili fu maltrattato anche con forza di mano fino a ricevere rottura di ossa: di tale circostanza i piccoli risentirono le conseguenze di sofferenza.
L'infanzia la ricordo come un sogno; a sei anni alla scuola; il maestro don Pietro Mandina ci insegnava cantando dalla a alla zeta; a primo anno passai la prima, il maestro della seconda si chiamava don Carmelo Montalbano e passai alla terza ma restai ripetente e come venne l'undici novembre mio padre mi portò a mettere "a sulicu" orzo al pane Giardinello e così finì il paese, finì lo studio; ma a quei tempi non si poteva essere elettori senza la carta di passaggio dalla seconda alla terza e quindi andai alla scuola serale e fui promosso.
A sette anni nel giorno del patriarca S. Giuseppe, 19 marzo, feci la prima comunione da solo; le preghiere le sapevo in modo differente dagli altri, perché me li aveva insegnato la mia mamma, all'antica, analfabeta, ma il contenuto delle parole era esatto. Felice il giorno della prima Comunione!
Senza che nessuno mi guidò, in quel giorno non sputai per tutta la giornata perché mi dicevano che non si doveva.
Imparai a conoscere i frutti della terra e li volevo in gran quantità nella mia casa; si sconoscevano carciofi, cavoli e frutti d'orto, ma non mi detti pace finché non ottenni l'abbondanza di tutto e per tutto; per nove anni ho frequentato le terre di Giardinello fino a 19 anni, quando partii per soldato. Sconoscevo il latte e non ne volli mai sentire; di fatti lu zu Minicu Tavormina mi fece mangiare la ricotta con il siero e mi abituai, mangiandone per diverso tempo.
Mio padre, uomo di lavoro, premuroso in tutte le cose, aveva come dote principale la sollecitudine; con lui mi ero abituato a correre sempre insieme alla mia compagna privilegiata -l'asina Garofalo- che faceva un puledro ogni anno (ne fece tredici) che si vendeva cento lire o meglio ottunzi;
la tredicesima puledra fu il mio cavallo di battaglia; forse per le carezze e le cure si fece alta come una mula e faceva corse a scommessa con i cavalli!
Il caro papà aveva tanto bisogno del mio lavoro e brontolava quando io straripavo (facevo altro lavoro) o per ammucchiare concime o per piantare cavoli e altro; per lui questo non era lavoro, però rideva quando raccoglieva.
Usanza estiva era andare al paese per prendere la pasta cotta: tortura terribile con le pendole di creta, fino a Santo Pietro al Giardinello; spesso si rompevano e la spisa si mangiava con li giammariti.
Oh terribile la società dello zio Matteo e mio padre! I piccoli facevano sempre zuffe pericolose, specialmente Calogero e io, che eravamo coetanei; durò poco quell'epoca di società, altrimenti si sarebbe ancora nelle zuffe anche da grandi a causa dei piccoli.
Nel maggio 1912 il caro e povero papà mio si ammalò di risibella e soffrì tanto che si ridusse all'estremo della sua salute. Ahimé! un giorno lo sollevai per cavalcare e mi accorsi che non aveva più carne e allora gli proibii di venire in campagna per curarsi, ma forse non fece cura esatta o non era ancora del tutto guarito quando verso il 20 maggio, incominciata la mietitura, a qualunque costo volle venire ad assistere; si preparò falce e cannelle e non fu possibile levargli di mente a non mietere un paio di giorni, perché gli sopravvenne la polmonite.
In breve tempo il male lo portò alla tomba; il 4 giugno alle ore 10 Papà non c'era più. Io l'ho visto agonizzare ed ebbi tempo di abituarmi all'idea della sua perdita, ma le mie sorelline, Giuseppina e Giacomina, che erano in collegio, a studiare ne subirono spavento; di fatti Giuseppina fu ostacolata nella sua formazione di donna; dopo tredici mesi precisi, il quattro luglio morì anche lei. Io ancora non ero uomo, ero veramente un ragazzo, ma mi son convinto che bisogna abbracciare la croce. Mio fratello Giuseppe, uomo dabbene e analfabeta, mi conduceva come compagno di lavoro, e anche dopo che si sposò, abbiamo seguito per qualche anno la continuità della società facendomi da papà, ma la moglie lo persuase a lasciarmi solo e non volle più sentire di aiutarci l'un l'altro; dal 1912 al 1914 si respirava aria di guerra con conseguenti sconquassi, che solo chi ha fede non perisce; spera nel Signore e non sarai confuso in eterno.
Le lacrime della mia mamma! Ne sento ancora il dolore.
Le sue preghiere e forse gli sguardi della sorellina e del papà dal cielo ebbero tanto frutto di bene; per la mia partenza per la guerra, o mamma, come ti comprendevo! Lasciarti sola! Abbandonare la campagna, gli animali da lavoro, i disagi dell'ottobre 1914 per la mia partenza per soldato, le terre coltivate a metà. Si parte per Agrigento quasi a piedi; volle venire mia madre con un carretto carico di olio e altro; c'incamminiamo di buon mattino versi Girgenti un po' in carretto (Venezia Michele) e un po' a piedi, impiegando un giorno, all'indomani, dopo aver pernottato, dovevo presentarmi alla partenza perché ero già assegnato all'8° artiglieria di campagna Verona. Ti ricordo sempre, mamma! Per me quella notte fu straziante, volevo disertare o procurarmi dei mali per non partire e non vederti così addolorata, sembravi la stessa Addolorata, non sapeva a chi scoprirsi le ginocchia e chiedere aiuto e grazia per non separarsi da quell'unico conforto che già si preparava al distacco. Locanda Zì Pepé Bibirrìa: quella signora locandiera forse pure pianse. Appare un uomo dai baffi neri, viso rotondo serio e deciso: è il signor Levetere. La locandiera Bedda Signura a ssu cristianu av'a priari si voli essere aiutata pi so figliu. MI sembrò farsi le ali la fiduciosa mamma; ma io di botto, in mezzo alla strada: «Signore, non l'abbia a male, gli vorremmo parlare.»
Rispose: «Venite con me.» Aveva comprato roba da fumo e lo seguimmo salendo un'alta scala, abitava di fronte al palazzo vescovile e in casa trovammo una santa signora che impastava il pane per i sei di famiglia.
Oh fiduciosa mamma! Dopo aver aiutato Donna Carolina all'allestimento di quel pane, già questa divideva con mia madre il dolore, pregando non più mia mamma sola, ma anche Donna Carolina. Vedi cosa puoi escogitare per non far partire, stu fighiu, Lilli, vidi comu po fari, lassaccillu stari pi nautru pocu.
Ma cosa c'è da fare? Volle sapere in tutto e per tutto la mia posizione; poi mi separai dalla mamma per rivederci chissà quando.
Con il signor Lovetere ci siamo avviati al distretto, mi consigliò: «Presentati che vediamo». Mi da gavetta, borraccia, berretto ecc. Alle due pomeridiane si parte. Certo che chi è giovane non sente dolore perché è forte, ma io avevo in mente mille pensieri. Giù, ragazzi, si parte! E incominciano ad inquadrarci e ad avviarci dal distretto alla stazione di Agrigento Basa. Mentre si marciava, vedevo correre a piedi velocemente un soldato. - Esca fuori la recluta Guddemi Vincenzo. Con il viso di fuoco mi presento. - Sei voluto al distretto. In compagnia di quel militare mi avvio e riconsegno gavetta, berretto ecc. Viene trattenuto il soldato Guddemi…in attesa… e assegnato alla terza categoria. Fratello maggiore disperso all'estero, il secondo al lavoro proficuo…
Come si pianse per il dolore, così si pianse pure di gioia.
Volo dove lasciai mia mamma con quella signora a ridire l'accaduto. A buon intenditor… Beati voi che piangete, presto riderete. Ebbi tanta riconoscenza per quel benefattore e ancora nel mio cuore tiene il posto del mio miglior parente.
Rientrato a casa, di nuovo al lavoro, riassettai tutto e preparai l'anno colonico e con una fortuna inaspettata avviai la speranza della semina per il nuovo raccolto.
1915. Una grande cometa che cingeva il cielo da un capo all'altro dell'orizzonte, si presentò al nostro sguardo in diverse posizioni tanto che io tuttora non riesco a darmi spiegazione di questo fenomeno; però fu chiaro che il mondo già era in sfacelo con la corsa alle armi, subendo tutti il terribile flagello della guerra.
Di fatti non passarono che pochi mesi…nella prima decade di marzo quel signore mi scrive così: «Caro Vincenzo, impossibile tenerti in casa, perché gli storpi partiranno per fare il soldato; la guerra è incominciata; ti attendo qui al più presto che anche tu devi partire». Non si ricorse più a proroghe, solo si poté scegliere il corpo dell'artiglieria e il 19 marzo mi presentai a Messina alla cittadella, tutta diroccata dal terremoto. Oh vedere quella città! in uno sfacelo di macerie inorridiva il cuore! Abitai in una baracca di legno. Oh quante cimice!
Dopo pochi giorni fui assegnato alla 12^compagnia-campo inglese nelle montagne sovrastanti Messina. Ci esercitavamo su cannoni di diverso calibro, maggiormente su quello con l'obice del calibro 280, una grossa bocca di fuoco.
Mi sentii ritornare ragazzino, non conoscevo ginnastica, ma dopo qualche tempo diventai il più vivo dei primi corridori e saltatori: come istruzione militare ci insegnavano poco. La guerra diventava sempre più sanguinosa in Francia e in Germania.
Ricordo che in un comunicato fu riferito che nei primi combattimenti i francesi ebbero uno sterminato numero di feriti alle gambe, perché portavano i pantaloni rossi; così gli eserciti furono spogliati di tale vestimento e si preparò il grigio-verde che giustamente non dava spiccata visibilità alla persona. La nostra neutralità fu breve, perché la frontiera veniva rafforzata di truppe italiane e le partenze dei giovani avvenivano giornalmente, anche la mia compagnia viene inquadrata e vestita di grigio-verde; l'ordine era di tenersi pronti per la partenza. E' certo che non si pensava più alla famiglia e agli interessi, ma alla vita. Si parte per il fronte! Giorno 14 maggio nel viale di S. Martino migliaia di giovani nella muta notte sono in movimento: si sente un solo tocco al passo militare;  la mattina del 15 in treno per la partenza. Non sio cantava, non si piangeva, ma si pensava.
In ogni stazione ci venivano offerti i fiori di maggio e solo in quei momenti si dimenticava la nostra destinazione. Primo teatro di guerra è Montenero, ivi giunti tra il 15 e il 24. Non è facile descrivere l'agonia della marcia, dopo che lasciammo il treno e avvicinandoci al luogo dove si uccideva…
Al fronte non c'era bisogno che spuntasse il sole per vedere l'aurora di fuoco. Macello umano! Non racconterò nulla, ma ho visto tanto. In primo tempo alle autorità militari avevo detto che reo analfabeta, non so per quale motivo, ma persuadendomi che con la guerra bisogna sapere qualcosa subito comunicai ad un mio caro compagno, che si era specializzato, che io sapevo leggere e scrivere chiedendo che fossi accolto nel numero di coloro che si esercitavano per diventare specialisti.
Oh, fortuna, miracolo! fui accolto e allora con tutto l'impegno possibile studiai e mi specializzai come gli altri che richiesero che fossi istruito. Imparai l'alfabeto Morse e gli angoli richiesti nell'artiglieria, che ancora conosco a puntino le norme per il tiro come un comandante della guerra; maggiormente con il cannocchiale e il binocolo, il cerchio di puntamento, il goniometro e il leografo, il bravo segnalatore in breve tempo avvistava le posizioni del nemico. Fino a questo tempo avevo un comandante capitano un po' duro, che comandava la 12^Compagnia del quarto fortezza, il numero di una compagnia era di 280 uomini di truppa. In tale Compagnia eravamo siciliani e calabresi, c'era da ridere e c'era anche da piangere, 24 della provincia di Agrigento, allora Girgenti. Non è uno sbaglio: Dio fa gli uomini  e fra loro si accoppiano. Ma non così eravamo Siciliani e calabresi, che ci guardavamo sempre in cagnesco.
Nei primi giorni del 1916 scende dal 2> Reggimento La Spezia un gruppo di uomini diretto per l'Albania e misto di milizia territoriale e giovane reclute, che andavano ad imbarcarsi da Taranto; ma vi era bisogno di altrei 16 giovani per completare il numero; fra questi 16 scelti per partire vi fui io, forse perché non ero ben visto o ero invidiato. Ci imbarcammo nella nave Principe Umberto. La mia cara sorella Giacomina mi desiderava a casa, perciò un giorno mi sento chiamare dal comandante della Compagnia e mi comunica che la mia mamma era malata e che appena saremmo arrivati a destinazione mi avrebbe mandato ed effettivamente mantenne la parola. L'Adriatico era covo di sottomarini austriaci, eppure nella mia lunga permanenza in Albania traversai ben dodici volte il Canale d'Otranto accentando qualche licenza, ma fui sempre noncurante del pericolo del mare.
Sbarco in Albania. Non si può immaginare l'asprezza e la selvatichezza di quei luoghi. In un gennaio acquoso scendemmo dal pontile dirigendoci verso Vallona; il terreno era paludoso privo di strade, con una laguna malarica e con capanne che facevano capire la nudità di quel popolo abbandonato, vestito di pelli di animali e di qualche tessuto di lana (abbrascio in dialetto siciliano). Solo l'Italia pensò a costruire strade, fontane e bevitoi, che quel popolo non aveva mai visto. Linea di combattimento tra italiani e austro-tedeschi era il grande fiume Voiussa; vi rimasi per ben 48 mesi affrontando grandi e duri sacrifici e per miracolo ho potuto riportare a casa la vita sana e salva non solo dalla morte ma anche da ogni ferita, eppure soltanto di Ribera ne morirono più di dieci. La mia fortuna fu cambiare reggimento: mentre prima ero con siciliani e calabresi, ora passai con dei continentali, veri signori, nel 2> Regg. 58^Compagnia La Spezia HO; il comandante si chiamava Pietro Marzi, fiorentino, in cui trovai un secondo padre; mi volle così bene ed ebbe in me tanta fiducia come se fosse stato suo figlio. Difatti mi ammalai mortalmente e non mi volle mandare all'ospedale da campo, ma mi fece curare dai migliori medici, accanto a lui, nella stessa batteria; e dopo venti giorni di digiuno riuscii a guarire.
Per compagni di tenda trovai dei fratelli: Alessandrello G. Battista, da Vittoria, il caporal maggiore Rizzo Venturino, da Melilli, l'affettuoso Bordonaro Giuseppe da Canicattini Bagni (Siracusa). Per il periodo albanese siamo stati quasi sempre insieme, dormendo sotto la stessa tenda per 56 mesi. Una volta ci costruirono una baracca con il tetto di travi e tavole roberoide, ma il 31 ottobre in una notte un vento di levante fece letteralmente volare il tetto, fortunatamente senza nessuna vittima. La guerra la posso racontare meglio di ogni guerriero, perché ero nell'osservatorio e avevo cannocchiali adatti, che a distanza di svariati chilometri si riusciva a distinguere il borghese dal militare, il cavallo dal mulo. Due volte sole portai lo zaino sulle spalle; ebbi il grdo di caporale degli specialisti; coltivai l'orticello all'uso nostro. L'Albania, terra fertilissima con acqua abbondante, produce tutto; il suo clima è quasi come quelo della sicilia, montuosa con abbondante pastorizia e greggi di pecore. Imparai in qualche modo a parlare l'albanese; anche quella povera gente mi volle bene; esisteva lo sciacallo, il lupo e la lepre in abbondanza in tutto il territorio dal confine greco alla Serbia e alla Bulgaria, contro cui eravamo in guerra. l'Epiro albanese è montuoso e con tanti sacrifici gli Italiani costruirono strade rotabili da Valona a Salonicco. Non racconto nulla, ma ero devoto alla Vergine Immacolata e di Santa Rosalia e ricevetti molti miracoli, specialmente nei vari tragitti marini dal 24 maggio al 4 novembre, non mancai mai all'appello; nel febbraio 1918 lasciai la vita militare con l'esonero e sono rientrato in famiglia come quei pellegrini che tutto trovano sconvolto.
Oltre alla guerra si è dovuto combattere con la peste mondiale: la febbre spagnola, che fu la strage della morte in tutto il globo terrestre. Dopo la perdita del papà e della mia cara sorella Giuseppina, si ammalò con la febbre spagnola la beniamina Giacomina, che dopo che si era diplomata da tre anni aveva trovato lavoro come maestra della seconda classe ebbe in sorte la morte, perdendo il frutto di tanti sacrifici sostenuti dalla famiglia per farla studiare al collegio Giusino di Palermo; io nella vita militare non osai mai chiedere denaro a casa, perché sapevo che il poco denaro serviva per la cara Giacomina; le lettere dell'amabile sorella mi gridano ancora all'orecchio affettuosità ed amore.
Anno 1919. Trovai le cose sottosopra a causa della sua morte; nessuna risorsa, c'era solo un'asina e una mula “faza” e diverse volte ho messo la vita in pericolo; mia madre in società con mio fratello Giuseppe e Leonardo Palermo coltivavano una tenutella; Oh, cattiva e sterile tenuta! Avevo intenzione di fargliela lasciare, ma i padroni: «Picciotti, coltivatela ca sempri ci ataghiri a lu  mulinu». Non fu così; al momento del raccolto hanno messo la guardia e ci portammo a casa quelle che si è potuto rubare, ma pagando la gabella siamo rimasti a mani vuote.
Anno 1920. Oh carestia dolorosa! mi ero messo al lavoro con tanti impegni, ma non pioveva ed aumentava la disperazione. La siccità fu così generale che nel mese di marzo le campagne furono lasciate come pascolo per gli animali. Io fui fortunato ché trovai da seminare un pezzo di terreno a mezzadria alle Giraffe (terra sott'acqua) presso un galantuomo, Luigi Tavormina; così ebbi modo di raccogliere un po' di grano e la paglia, grazie alla Divina Provvidenza e alle preghiere delle mie sante sorelle morte. IL signor Tavormina aveva una mulacciuna tra i due e tre anni e lo pregai che me la vendesse e il mio desiderio si avverò. Ecco come spuntò la mula di nome Pulita, che condusse tutti i miei figli al lavoro. Il prezzo fu di £2.200 che a stento ho potuto pagare, perché mia madre dissestata finanziariamente per la morte della mia povera sorella non mi poté aiutare tanto all'acquisto di detta mula.
Anno 1921. Le campagne dettero un buon raccolto, quello che non si raccolse l'anno della siccità e durante l'anno mi comprai un'altra mula di nome Castagna, e così io e le due mule, tutte e tre giovani si correva come si voleva.
Anno 1922. Fu l'anno in cui ho sposato la mia cara Marietta, il 22 aprile; e subito cominciai ad assumere impegni, vendendo due case, una mia a £ 13.000 e l'altra di mia moglie a £ 9.000. Siccome erano in vendita i quattro feudi: le due gulfe, castellana e camemi, preparai il denaro per fare acquisti. Comprai granaro, tumoli e castellana, il castellazzo e cinque tumoli accanto alla dote di mia moglie a Piana grande da Serafino Garamella. L'acquisto dei quattro feudi fu fatto dai combattenti del '15-18 presso il Duca di Bivona. Ma la cooperativa Cesare Battisti non poté far fronte alle spese e allora ci venne in aiuto il dott. Gaetano Vella, insieme al quale io ero amministratore e liquidatore della cooperativa; di fatti tutti gli atti dei quattro feudi e del Verdura dà poteri eredi a Calogero Parlapiano e alla moglie sig. Zanelli.
Anno 1923. Nei primi di gennaio nasce il primo dei miei figli, Calogero. L'annata non fu abbondante e si cominciò a trascinare la povera vita. 
Anno 1924. Uguale al precedente e siccome restavano molte terre a pascolo, ne seminai sei salme e mezza.
Anno 1925. Nel gennaio si mise in vendita il feudo del caminello re si dette il caso che mi impossessai di mezza salma di terra, seminandola a cotone; quindi seminai sette salme di terre con un solo aratro e venne una buona annata, consolante di un buon raccolto con una pioggia abbondante il giorno del sabato santo. Nasce Matteo.
Anno 1926-27. Ho fatto società con don Vincenzo D'Angelo di Cattolica Eraclea. Tutto il feudo di cuci-cuci, 112 salme, lo gestimmo in affitto per due anni con un equo guadagno, ma siccome le leggi di Mussolini non permettevano il sub-affitto lo abbiamo ceduto di nuovo ai proprietari, chiamati Cavalieri, i sigg. fratelli Borsellino. Si da il caso che detti proprietari si affezionarono alla mia persona e la mia fiducia e mi vollero dare come socio mio cognato Santo Palermo, Antonino Palermo e Giuseppe Smeraglia, una bella compagnia, che durò dieci anni; divenimmo tutti compari e oltre a cuci-cuci coltivammo tutte le isole del dott. Gaetano Vella per pochi anni. In questo periodo nasce Giacominello (1926) e nel 1929 il laborioso Giuseppe. In quest'anno stipulo l'atto del Granaro e della terra delle Giammariti, due belle chiuse che mi aiutarono tanto a portare la croce della famiglia. Comprai quattro tumoli di terra a Bellanca e i miei figli conobbero ogni abbondanza di frutti; ogni mio nato vi aveva la sua pianta di fico. In seguito si verificarono annate poco favorevoli, ma a dire il vero, l'anno che ci ha messo con le spalle al muro fu il 1931. Il 20 febbraio ci colpì un grande ciclone e più di dieci salme di terra da me coltivate non fruttarono niente, e n,el 1932 non potei pagare gli interessi a chi mi aveva soccorso e per giunta avevo pregiato (garantito) quei quattromila lire a due individui e le pagai di tasca mia, perché i creditori non ebbero clemenza, bontà, anzi approfittarono l'occasione per farmi cadere in fallimento dopo il disastro della cattiva annata.
Coraggioso, fidente nella Divina Provvidenza in quel mare burrascoso per tutto il 132 lottai senza posa, che per diverso tempo di insonnia e la notte mi svegliavo stanco, che per quei terreni non bastava il lavoro del giorno ed idem della notte. Oh! anno 1932, anno santo per me, un favoloso raccolto in quelle stesse terre danneggiate; per miracolo non coprii subito il vuoto (del debito). Nasce mio figlio Salvatore, il quinto, con un dente, segno di felicità.
La mamma lo nutrì con il suo latte per cinque mesi; ma nel luglio si ammala mia moglie di anemia e non le è più possibile allattare il suo figlioletto; si ricorre alla nutrice (nurrizza) e viene allattato da una mamma e sua figlia, che avendo da nutrice i loro figli, a stento poterono aiutarlo. Ma dopo quattro mesi ho comprato una capretta e così fu risolto il problema di assicurare la vita di Salvatore e non ci fu bisogno di altra nutrice. Il male che colpì mia moglie non fu passeggero, ma per diverso tempo della sua vita, ad intervalli, rimase soggetta a simile sofferenza. Dopo tre anni viene alla luce la cara figlioletta Maria. Fu nutrita dal latte della sua mamma fino all'ultima goccia. Nel 1933 l'arciprete Licata vuole ripristinare la festa del SS. Crocifisso, che era stata abbandonata, e mi chiama per aiutarlo a riprendere la festa; io accettai con devozione e fede malgrado le difficoltà la festa riuscì benissimo.
Mi successo compare Domenico Ruvolo e altri per un trentennio aiutati da compare Gaspare Miceli, persona devota e impegnata, e da allora i festeggiamenti del SS. Crocifisso sono continuati. Mi riservo di aggiungere che “chi ha fede non perisce”; non sono mancati miracoli a catena, nonstante le guerre che da quella del 15-18 si sono susseguite; quella d'Africa, della Spagna e la seconda guerra mondiale.
Nasce la settima figlia coronando la numerosa famiglia e ottenendo la completa esenzione delle tasse; vive più di un anno senza latte né di mamma né di nessun'altra, avendone cura la cara sorella Ninetta, che fece da seconda mamma di tutti i miei figli.
Il lavoro fu il mio compagno, facendo sempre più del necessario in tutte le imprese. In quest'opera feci società con il signor Vincenzo D'Angelo da Cattolica Eraclea nell'acquisto del feudo di cuci-cuci in affitto, ma dopo due anni per le leggi mussoliniane, che proibivano di affittare per subaffittare, finì anche questa società. Ne iniziai un'altra a quattro: io, Palermo Antonio, Smeraglia Giuseppe e Palermo Santo, mio cognato; durò dieci anni con buoni e fraterni rapporti sino alla fine; di fatti siamo divenuti tutti e quattro compari; io ero il più giovane e non si dubitò mai l'uno dell'altro, ma non ero contento di fare l'agricoltore.
Si vendevano terreni fabbricabili e ne acquistai un po', ma siccome compare Salvatore Garamella aveva il vizio del gioco, non potemmo andare d'accordo ed anche in questa impresa, appena iniziata finì, riservandomi lu firriatu e lu trappitu per i miei bisogni.
Il motivo della rottura della fiducia fu il fatto che gli avevo rilasciato una cambiale e se la fece vincere al gioco dal Catarinaru, che vista la mia firma apposta alla valuta la protestò ecc. Finisce ogni società e mi restringo al lavoro agricolo, mentre i miei figli cominciano a crescere con poche nozioni scolastiche, ma GIacominello, per consiglio di Gerlando Contrino, si prepara a studiare presso i salesiani di Pedara (Catania) da costì passa a Modica con un cugino dello stesso nome, ma questi non continuò e ,si fece dottore in medicina, mentre il mio GIacominello continuò per lavorare nella vigna del Signore. Abbiamo incontrato i disagi della guerra 1940-45, ma per fortuna la mia famiglia non è incorsa in disgrazie anche perché l'invasione è stata senza lotte e resistenza militare. Nel 1941, il primo giugno nasce l'ultimo figlio, Nino, l'eccellenza gigantesca, bello distinto fra tutti i bambini di quell'epoca, altezza un metro e dieci centimetri, visse quasi tre anni, fu la pena di chi lo conobbe, la mia tuttora è viva, mi duole di averlo perduto senza malattia, per le prime fave verdi con l'ittere prematura; entro 48 ore passa dalla vita alla morte; pena grande non poterlo salvare tutti i medici di Ribera.
Negli anni della guerra nasce la pastorizia a S. Pietro  e grazie a Dio non finì male; ho avuto come compagno compare Paolo Tortorici e ho dovuto sempre fare da scudo ai vari compagni, perché ero il più ben voluto. In questa occasione iniziai la lunga carriera di presidente della cooperativa, avendo sempre la speranza di portare avanti la numerosa famiglia, aiutata dalla divina Provvidenza e fidente nel volere dell'Altissimo: undici a tavola, bene. In questo frattempo (alla fine della guerra), con il compare Paolo presi la via tortuosa dell'oleificio (oh, mai fosse stato!); la Francesca nel suo racconto dice: “da quel giorno non leggemmo avanti io venni meno come se morissi e caddi come corpo morto cade” (Dante).
L'oleificio è stata un'impresa, che mi ha portato una serie di affanni, e dopo compagni su compagni finì che… fai l'arte che sai, se non arricchisci camperai. Come secondo compagno si presentò Caico Salvatore, Ladruncolo intelligente; quando vide che poteva imbrogliare, cominciò a masticare; non si fermava alle modifiche, ma per i suoi tornaconti agiva sottobanco con i venditori: ditte Breda, Veraci, Crispi Calogero, avendo accanto all'oleificio un locale, si fece entrare come quarto compagno e le cose camminarono in bene, ma per breve tempo, giacché un bel giorno il famigerato Caico, che non aveva mai visto guadagno, di punto in bianco si vendette la sua quota al sig. D'Azzo Giuseppe e con lui entrò lo sfacelo nell'oleificio: con compagno D'Azzo tutto andò sottosopra; diffamava se stesso e i soci.
Ci fu un ammmanco in una casella n. 17, io la celai e risarcii il cliente Tallarita. Il D'Azzo mise ingiustamente in giro che era il mio furto a quella casella… una serie di male azioni.
Questo tale acquista con contratto una pressa del prezzo di tre milioni; non volle costui farla lavorare nell'oleificio di Ribera, rifiutando il convenuto patteggiato con la ditta Verace. Con la garanzia di Liborio Guarraci a Sant'Anna un oleificio da fare affari buoni e vi istalliamo la pressa Verace, su cui avevamo contrasto. Si fa simile affare con tanto danno, ahimé! Il paese di Sant'Anna è poverissimo e per i tre compagni Guarraci, Tortorici ed io il secondo oleificio presto si infettò di quella povertà, sicché si ricorse ai ripari, perdendo il meglio. Subito si cercò di fuggir via, svendendo tutto e accollandomi ogni perdita.
Ripresi con i miei figli la via della terra, che con forte lavoro e buone attitudini nostre a tale tipo di lavoro sortiva fuori il meglio e il necessario, accompagnato dall'aiuto della divina Provvidenza. Un incontro con Giordano Pasquale e un certo Porrello Amedeo, mediatore delle terre di Vizzì, si concluse con degli assalti al negozio da parte di gente non di buona condotta e così ho dovuto dare una parte a loro, dividendo le terre in tre quote con Tortorici ed io. Il negozio si concluse a £ 53.000 tumolo e con ansia e travagli si ottenne il possesso da chi l'aveva in affitto. Della mia quota di cinque salme, ne ho data una salma a mia sorella Vincenza e due salme a mio figlio Matteo per il suo matrimonio, dotandole alla figlia di Giuseppe Colletti.
Dopo anni Miceli Gioacchino vendeva una salma e mezza dello stesso Vizzì e un certo Rizzuto da Cattolica vendeva una salma e mezza a cucicuci; le comprai, cedendone 12 tumoli a mio figlio Calogero con la speranza di un contributo dalla Cassa del Mezzogiorno, che finì con la mezzanotte con tanti guai, sicché per liberarmi dai debiti e dai danni arrecatimi dovetti vendere quattro tumoli di terra a Bellanca… La pace sia con vio disse Gesù agli Apostoli; così con la vendita di Bellanca venne la pace nel mio cuore…
Non parlerò più di altri impegni… mi fermai facendo un nuovo impianto a Bellanca, nei quattro tumoli rimastimi, e spero che sarà il vero bastone della mia vecchiaia e dell'abbondanza per i giorni che ci consentirà il Sommo Signore.
Avrei bisogno di continuare, ma mi fermo alla data in cui sposai i miei figli con tanto amore di garantire con adeguate premure il loro avvenire, sicché spero che nessuno avrà diritto di lamentarsi né con la moglie né con i familiari, perché tutto corrispose al meglio e alla mia buona volontà, accollandomi per ognuno ogni spesa e ogni gravezza con amore affettuoso.
Spero che alla fine non malediranno l'operato dei loro genitori, che seppero allevarli con cristiana prontezza. Non diranno altro se non che mancò mai il necessario, anzi con l'aiuto divino hanno avuto l'abbondanza, uniti alla mia mamma; che non si accorse della sua vedovanza; ed anche mia sorella Antonina, seconda mamma dei miei figli, è voluta bene da tutti, perfino dai nuovi nati, perché in quell'abbondanza di cui gode, ha sempre qualcosa da dare per farli contenti; elle è l'uguale padrona di ogni cosa, che abbonda in comune nella casa che comunemente abitiamo.
Non voglio continuare dopo queste pagine del presente quaderno scritto a modo mio; il vento della vita comincia a soffiare un po' infido!, a motivo che la salute della mia colomba senza fiele, della donna mia, della mamma buona dei miei figli… Dopo la nascita di Salvatore cominciano le balie…

LA STORIA DEI QUATTRO FEUDI
Fine della guerra 1915-18 ; 4 novembre
Nel 1919 i combattenti rientrando formano la Cooperativa Cesare Battisti con a capo come presidente Paolo Perricone e il relativo Consiglio di amministrazione…
Esisteva nel paese un'usura insopportabile; nel frattempo viene come arciprete D. Nicolò Licata, uomo profetico e saggio, conoscitore profondo dell'usura; raduna un gruppo di agricoltori: famiglia Ganduscio, Marrone ed altri e da buon pensante crea la banca di S. Gaetano; ecco la prima caccia all'usura e al feudalesimo, il colosso temuto dai bravi riberesi. Non si usavano mezzadrie, ma fitti di feudi di proprietà del Duca di Bivona, lo spagnolo Alvarez di Toledo, ma amministrati tanti da Palermo che da Ribera, dove fu amministratore Pietro Ciccarelli; la casa ducale era accanto al cinema Vella. Da tale amministrazione veniva creato un vasto vigneto nel feudo Camemi, ben tenuto, formato dalle prime barbatelle americane. Il vino di primissima qualità veniva raccolto e immagazzinato presso la casa ducale, ove abitava Ciccarelli Pietro.
Tutte le contrade possedute dai vecchi riberesi erano sottoposte al censo. Tale censo (cinque lire al cento) con un'ultima rendita alla Madre Chiesa alle porte sud di Ribera con il nome Pantano fu ceduto a favore del protettore San Nicolò e veniva chiamato non censo ma legato pio. A questo punto l'arciprete Licata prese atto della cosa e tutto il terreno del legato pio fu assegnato e venduto alla famiglia Ganduscio, che tuttora possiede.
Primo feudo: Piccirilla, si vende appena finita la grande guerra con lottizzazione popolare. I combattenti reduci, scarni e laceri gridano che vogliono la terra. L'onorevole Angelo Abisso di Sciacca, parente della famiglia Liborio Friscia, si mette a disposizione della nostra cooperativa Cesare Battisti, facendosi ottenere l'intervento dell'Opera Nazionale per ottenere quattro feudi: Ulfa panetteria; Ulfa Giummarella; Castellana e Camemi.
La grande guerra decimò il meglio, il fior fiore dell'umanità, che combatté il nemico con mezzi di linea così inefficienti che reggimenti e reparti venivano inghiottiti in pochi istanti. Quando si stava mettendo alla guerra la parola fine, si scatena per tutto il globo la febbre spagnola; nessuno può descrivere la mortale pestilenza, non bastarono ospedali né campo né civili. Ritorniamo all'affannato Ribera, il cui territorio nell'agrigentino appartiene alla fascia litoranea più calda della Sicilia, essendo la più vicina d'Africa. Il famoso 1920 tutti i superstiti della guerra, con addosso un'arsura di lavoro, cercavano a qualunque costo un posto di lavoro per rifocillare e portare il pane ai loro figli.
Eravamo arditi della guerra e con lo steso ardimento ci siamo messi al lavorare ogni zolla di terreno per recuperare il tempo perduto. Non piove abbastanza per dare inizio alla semina, ma in qualche modo si seminarono per intere tutte le colture.
Ahimé! la siccità totale! Spunta il sole di primavera e brucia tuti i cereali di quella litoranea, solo la parte montuosa produsse in qualche modo. Dovendo poi acquistare a suo tempo qualche salma di grano in detta zona montuosa, il povero compratore dopo averlo pagato a £ 500 veniva anche derubato dell'animale che lo trasportava. Povero disperato combattente! Ma essendo giovani si ricominciava, vivendo sempre nella tenace speranza.
Anno 1921 fu fertilissimo e venne a ripagare il vuoto della siccità precedente. Gli agricoltori quell'anno abbiamo seminato a squadre di dieci e di venti unità. Avendo piovuto con abbondanza nei primi di settembre, dovunque c'era terreno da seminare, ci siamo messi al lavoro senza più pensare a siccità.
In seguito viene dato il possesso dei quattro feudi, promessi alla cooperativa combattenti Cesare Battisti e si dà inizio alla quotizzazione con la limitazione di non più di mezza salma e man mano vengono assegnate con una specie di sorteggio. Si doveva raccogliere il denaro, che per tutti i quattro feudi raggiungeva la cifra di tre milioni, da pagare rateizzati, secondo accordi presi. Per entrare in possesso bisogna pagare subito il quarto costo dello spezzone in possesso e la maggior parte con il pensiero di possedere la terra fu costretta a vendere la casetta per versare il quarto e cominciare a guadagnare per pagare con il frutto della terra. Già all'inizio del 1920 le file della cooperativa ingrossavano per il ritorno a casa dei combattenti e ci siamo fatti avanti per acquistare due grandi magazzini, accanto al carcere comunale, nella piazza Duomo.
Tali magazzini (Bella fiorita) costarono £70.000 e furono usati come sede della cooperativa C.B., perché si era ottenuto un buon prestito dal Banco di Sicilia. Anche l'arciprete Nicolò Licata con i soci della sopradetta Banca di S. Stefano si dà da fare per acquistare il fondo fertilissimo di Strasatto, che ha come confine il fiume Magazzolo, la strada di Montallegro, Cucicuci e la strada nazionale per Agrigento.
Intorno a questo tempo si è compiaciuto di venire a Ribera il grande Duca dalla Spagna e i ricchi riberesi volevano tentare l'acquisto dei feudi ducali. Ecco come avvennero i fatti: noi combattenti si dà inizio allo sciopero  -che non si chiamò così, ma cinque giorni di bolscevismo- il duca rimane bloccato, prigioniero nella casa ducale, tenuta dall'amministratore dott. Pietro Ciccarelli. Durante lo sciopero vi furono diversi furti e vandalismo, con incendio di alcuni magazzini, di masserizie agricole; le botti piene di quel prezioso vino, perforata da pallottole di pistola; perdettero tutto il contenuto.
Questi erano sciacalli ubriachi e più di trecento finirono in galera. Ma noi si faceva scudo al primo piano, dove era imprigionato il duca. Molti volenterosi e ben pensanti con a capo Accursio Friscia, allontanandosi quei forsennati che mettevano a soqquadro l'abitazione, prelevarono finalmente tutta la famiglia Ciccarelli Pietro mettendola in salvo; altri con fraterno rispetto ci siamo fatti scudo al duca e l'abbiamo portato in trionfo per le vie e soprattutto in piazza, facendolo poi sostare proprio in una cooperativa già esistente, la S. Giuseppe, che risiedeva dove oggi c'è la banca sicula. Il duca diceva di non potersi spiegare bene nella nostra lingua; lo si pregò che si sforzasse e appena piano piano aprì il discorso non ci fu bisogno di interprete; affermò che le sue terre dovevano essere distribuite non ai ricchi ma al popolo di Ribera.
Bello è fidar negli uomini, ma ahimé! quando c'è di mezzo il denaro… Un tal segretario Francesco Valenti… ognuno gli portava, come la formica il quarto della somma per l'acquisto di uno spezzone di terra… ma a chi lo versava? Al segretario senza scrupoli, senza un solvibile cassiere. Quando la somma si fece un bel gruzzolo, un bel giorno si cercò del segretario… già si era imbarcato per gli Stati Uniti, lasciando con la bocca asciutta quei primi volenterosi, che stavano raccogliendo le somme. La speranza si convertì in disperazione e spavento e molti rifiutarono di darsi alla terra.
“Ben sei crudele e non ti duoli…!» Il debito superava le due centomila lire presso il Banco di Sicilia e più di trecentomila se n'era appropriate il famigerato emigrante (una vera confusione).
Molti non pensavano alla terra, ma all'asinello e alla casetta che avevano venduto, restando ora senza terra e senza casa.
Nel Signore è la speranza, non saremo confusi in eterno! Molti furono i commenti; con le mie orecchie sentii un caprione che disse: «Metteteci una lapide a questo Cesare Battisti, non avete scelto bene il nome del combattente martire.»
Quando il mare in tempesta freme, il nocchiere che si abbandona va sicuro a naufragar… un gruppo di volenterosi, che avevano un poco di buona responsabilità, corre da chi poteva aiutarci, gridando: «aiutateci, abbiamo quattro feudi; dopo la tempesta deve venire la bonaccia… » Eravamo già verso la fine del 1923… andammo dall'avvocato E; Gueli, persona di fiducia del grande dottore Gaetano Vella; egli ci interroga: «cosa avete, giovanotti, che vi vedi stravolti e preoccupati?» «Avvocato, per mezzo del dott. Vella ci deve aiutare». Gli si raccontò tutto e rimase tanto addolorato; ci fece tanto coraggio e ci presentò al dott. Vella.
L'incontro fu duro, non come colui che piace e dice… «Voscenza ci deve aiutare… è un peccato perdere li megli feudi di Rivela…» Temporeggiò un poco; scaltro ed esperto di affari capì la ricchezza dei quattro feudi. Incoraggiò il gruppetto, come suole fare chi è sicuro di sé, e battendomi la spalla disse: «State sicuri che i tre milioni ci sono e tuto pago io; però bisogna liquidare la Cesare Battisti.
Nessuno volle fare il liquidatore; era una liquidazione facile. L'anno 1924 si quotizza definitivamente la Cesare Battisti sotto la cura dei tre liquidatori: Guddemi Vincenzo, Di Leo Giuseppe e Parlapiano Biagio, tre contadini arditi di fronte alla massa… A questo punto il dott. Gaetano Vella, salvatore dei quattro feudi, si stringe a noi tre e ci chiama: ecco il mio stato maggiore! Si da inizio alla distribuzione della terra e a chi aveva la buona volontà di insediarsi nello spezzone di terra veniva dato un aiuto straordinario: non più il quarto del costo, ma un'anticipazione secondo le forze, che veniva chiamata caparra.
Alla benignità del dott. Vella per la rimanenza bastava firmare una cambiale con il minimo tasso d’interesse. Con il solo assiduo lavoro, dalla stessa terra in breve tempo tutti poterono pagare, tutti divennero proprietari, grazie alla divina provvidenza. Questa fu la leva di ricchezza per il laborioso contadino di Ribera, che marciò per tutti i feudi, mentre prima il paese era quasi imprigionato nella morsa del latifondo feudale e non gli era permesso mettervi piede né per un fascio di legna né per raccogliere verdura alla fame dei poverelli. Ora sono tutti coltivatori diretti di un territorio ricco e fertile, che sembra una terra promessa.
Dopo i quattro feudi, si presenta il quinto feudo, il Verdura che si estende lungo il fiume al mare, con una costiera fertilissima, che assicurò la ricchezza dei giardini (canna granne, canna masca, spatolilli). Dal feudo Verdura erano proprietari i vecchi Parlapiano, che lo danno a un vero nipote ereditario (Lillì), che era l’unico erede universale del fratello Francesco, che doveva continuare la grande famiglia.
Ma Lillì non volle sposare la ragazza che gli zii pretendevano e sposò una ballerina, la signora Fanelli, che negli atti risulta Leotta. A questo colpo di testa, a questa rivoluzione di matrimonio non voluto dagli zii, il signorinello Lillì cadde di colpo da erede universale e venne scelto il figlio della sorella, Vella Parlapiano Antonino, chiamato Nené dal vecchio zio Nené, onorevole e Sindaco di allora.
Lillì ebbe il feudo rispettabile del Verdura, un vero tesoro. Dalla ballerina ebbe due maschi, che morirono in età non matura; nella stessa epoca viene affidata al dott. Gaetano Vella la vendita del Verdura, aiutato da noi liquidatori con la quotizzazione attuale dei contadini di Ribera.
L’arciprete Licata, uomo posato, seppe stringersi agli agricoltori abili e laboriosi e anche lui diede l’assalto al rimanente feudo del duca di Bivona, il Camimello-Corvo e aggregati di bel monte alle porte del paese. Corri contadino di Ribera, sei già proprietario di tutti i feudi del duca di Bivona. In pochi anni di sudato lavoro, quelle vergini terre,  che non conoscevano il vero padrone, oggi danno oltre il pane ogni ristoro e soddisfacenti vigneti, oliveti e agrumeti.
L’ex feudo San Pietro viene condotto in affitto dalla cooperativa S. Giuseppe; per motivi di gestione poco sana, anche questa sta per crollare. Ed ecco l’intervento della cooperativa la Bonifica, presso gli Ospedali Civili di Sciacca, che toglie il deficit creato dalla detta cooperativa S. Giuseppe, accollandosi ogni impegno. Raccoglie i volenterosi soci della S. Giuseppe e così incomincia la nuova marcia per le lande deserte, coperte qua e là di pama nana. Quasi cento ettari di di dune, che la salsedine marina rovinava, vennero bonificati. Per difendere le colture, si richiamò l’attenzione della forestale per l’imboschimento della zona litoranea del feudo per la durata di dieci anni; invece non fu così. Gli ospedali civili, senza pensare alla Cooperativa vendettero alla forestale tutta la striscia dunosa per poche lire ed attualmente sorge un rigoglioso bosco, che è tanto importante per la panoramica del feudo e per la salvezza delle colture e ridosso dalla salsedine.
Santo Pietro oggi Borgo Bonsignore, tu senza strada, tu senz’acqua, tu senz’acquedotto, tu senza case sufficienti per rimanere a dormire e a lavorare con la creazione di tucul ecc.
O emigrato in America, vieni a vedere, dopo quasi quaranta anni di lavoro, vieni vieni, non riconoscerai più quella landa deserta, non vedrai più quella palma nana, che veniva estirpata con il piccone, vieni a vedere dai tucul le case che sono sorte! Oh! amministrazione tenace e laboriosa! Inizia l’amministrazione del defunto Castrense Marrone; lo sostituisce per poco Paolo Tortorici e Calogero Coniglio. Dopo eco che s’insedia l’indefettibile Presidente Vincenzo Guddemi, proprio all’inizio della seconda guerra mondiale, con cura del feudo Camimello e aggregati di bel monte. Nella cooperativa trova posto un buon gruppo di soci quasi cinquecento, essendoci spazio tanto in proprietà quanto in affitto del feudo Santo Pietro; con l’affitto si intendeva aiutare i più poveri ad ondate per resistere alle spese del dissodamento delle terre vergini di Santo Pietro. La cooperativa La Bonifica oltre alla guida dell’arciprete Licata ebbe la direzione del nipote rag. Franco Di Leo, giovane ardito, abilissimo condottiero, moralista e artefice di tutto, prezioso politico, che con i suoi contatti con il fascismo dell’epoca, dal paese fino a Roma, trovava tutte le porte spalancate; acquisto macchine, trebbiatrici… Non più la Banca S. Gaetano, ma creazione di una Banca popolare, che unita alla cooperativa acquistò ogni prestigio; contributi per progettazione strade dalla provincia al feudo. Creazione del Borgo Bonsignore con la costruzione di più di venti case coloniche, con un caseggiato centrale che serviva da caposaldo del feudo, con attrezzature meravigliose con cui si diede inizio a impianti di vigneti, oliveti e frutteti ecc. Oh anni brillanti! Si ottiene un fido dal Banco di Sicilia, acquistando fertilizzanti, concedendo credito ai soci bisognosi di prestiti per acquisto di animali sementi e ogni fabbisogno per i singoli soci.
Durante la seconda guerra il feudo cominciò a sentire il vuoto di tante bracia per la chiamata alle armi di tanti soci sicché molti terreni restarono incoltivati e si potevano usare solo per pascolo. L’indefesso presidente Vincenzo Guddemi con l’animo sospeso per un’eventuale chiamata alle armi fortunatamente rimase escluso, la chiamta arrivò proprio alla classe 1896, esente la classe 1895. Cosa fare allora delle terre incolte? Cercai un gruppo di dirigente con passibilità finanziarie, avendo intenzione di creare un’azienda pastorizia.
Diversi coltivatori dissero di sì, ma quando si trattò di passare ai fatti la maggior parte si ritirarono. Ardito e coraggioso in merito fu il consigliere Tortorici Paolo, che insieme a me e al rag. Franco Di Leo (uno dei fratelli) demmo l’assalto alle fiere del mercato acquistando animale bovino ed ovino e un certo numero di scrofe, che ebbero molto rendimento nel’azienda.
Con molti sacrifici si portò avanti per tutta la durata della guerra. Finita la guera si pensò di sciogliere la società per dare posto ai reduci,, ridonando loro la terra del feudo. Si dà corso ad un vasto impianto di vigneti nella striscia dunosa, che per miracolo non fu la tomba della cooperativa, essendo soggetta ad un insetto, che rodeva anno per anno le viti impiantate; era il maggiolino e la piccola lumaca. Non ci davamo pace ma ahimé non c’era niente da fare. Si va a Palermo all’ufficio sperimentale per fare analizzare e trovare l’antidoto della terribile cancrena di insetti. Venne una Commissione di Palermo sul luogo e si portarono in scatoloni il maggiolino per gli esperimenti. Dopo un accurato esame fu trovato un medicinale asfissiante, che purificò il terreno e oggi in quelle zone sorgono i migliori vigneti, ove un tempo c’erano dune, chiamate “rini”.
Dopo la scoperta dell’efficace medicinale, il paziente Guddemi Vincenzo riuscì ad incoraggiare ed a far completare l’impianto di rigogliosi vigneti.
Finito il terrore della guerra, la cooperativa gestiva il feudo a gonfie vele. Il rag. Franco Di Leo con l’orgoglio di buon amministratore si invaghì della forza delle nostre armi di voto e si decise a presentarsi alla candidatura regionale riuscendo eletto onorevole. Con la sua elezione alla Regione Siciliana si comincia a fermare l’orologio della cooperativa.
Entra l’invidia, entrano le persecuzioni, le ingiuste ispezioni e dopo i miei vent’anni di presidenza si rende necessaria la dirigenza commissariale. Povera cooperativa “La Bonifica!” Chiede la giusta causa dei bei cento ettari di dune cedute alla forestale, esigendo estaglio ingiusto pagato. Si forma politicamente un triunvirato nella decisione della causa e la brillante cooperativa viene condannata a tredici milioni di spese da pagare, ma poi aumentò di molto per il tasso di interessi, tanto che i soci si domandavano: Che cosa è successo, chi è stato a commettere l’ingiustizia?
Concludendo, dal primo contratto con gli Ospedali Civili di Sciacca fino all’atto di proprietà, vi furono proroghe di legge che ritardarono molto l’iter, ma con tenacia, pazienza e molti sacrifici si ottenne una legge, che dava diritto di possesso a chi da trent’anni aveva fatto opera di trasformazione e così malgrado molti bastoni fra le ruote ogni possessore di terra nel feudo resterà proprietario con atto stipulato dinanzi al notaio.

PENSIERI
Figlio, durante la tua vita metti a prova l’anima mia. Guardati da quel che le è nocivo…
Non si sazia l’occhio di guardare, nemmeno l’orecchio di udire.
Principio di ogni impresa è il raziocinio e prima di ogni azione la riflessione.
Prima ricorri a Dio e poi al medico e alle medicine; chi pecca contro il suo Creatore cadrà nelle mani del medico o del nemico.
Radice del pensiero è il cuore, da cui spuntano quattro rami: il bene - il male, la vita - la morte.
Il savio ha gli occhi in fronte, ma lo stolto cammina al buio.
Se un mangia e beve e gode del suo lavoro è un dono di Dio.
Non c’è uomo giusto al mondo che faccia il bene e non pecchi.
Chi è grato a Dio ne può scampare, ma il peccatore ci resta preso.
Né l’amore, né l’odio: sono ciechi al pari della sorte.
Il vino rallegra la vita - il danaro a tutto ripara.
Non aspettiamo la vecchiaia per darci a Dio. Ricordati del tuo Creatore nei giorni di tua gioventù. Temi Dio e osserva i suoi comandamenti: questo è il tutto dell’uomo.
Amore cieco a tutti in tutto!
Non mai esitai dinnanzi al mio destino. Ho raccolto a zaino pieno, ma non volli mai saziarmi. Ogni impresa mi sembrò leggiera…
Tutti i gusti ho voluto assaporare, ma soltanto l’onestà e il lavoro furono miei amici.
O Signore, quanto aiuto ho avuto da Te; nella povertà coraggio e salute, nel dubbio e nelle difficoltà sproporzionata forza di bene di affetti di compagnia di superiorità.
A Te, o Trinità beata, lode e gloria e riconoscenza!

Veneriamo Maria, la madre di Gesù; nessuna creatura è più grande di Maria, Regina degli Angeli, degli Apostoli e di tutti i santi.

sabato 9 novembre 2013

Pasciuta Michele - Una parola sulle risaie di Ribera in Sicilia - Firenze 1869












CHIESE RURALI E PRIVATE


Estratto da
Biblioteca Storica Riberese a cura di Raimondo Lentini, tomo quinto, Ribera Sacra - Parte prima, Ribera marzo 2013.
Pagg. 218-220:


Nel Settecento alcuni nobili riberesi, come del resto avveniva da sempre nei paesi di fede cattolica, edificarono delle cappelle private nei loro palazzi di città o di campagna.
La prima chiesa rurale, di cui si ha notizia, appartenne al barone di Magone don Calogero Di Giovanni, affittuario dello stato di Caltabellotta e di Ribera. Essa si trovava nel palazzo, chiamato “il Casino”, sito appunto nel feudo di Magone. Ne troviamo notizia più antica nell’inventario dei beni appartenenti al Di Giovanni, stilato il 28 aprile 1717 (1), cioè dopo la morte. Leggiamo, infatti, nel suddetto atto a carta 212 verso: Item un Palazzo sito e posito nel fego seu Piana di Magone uti dicitur il Casino consistente in numero 23 corpi di casa tra quelle di sopra et officine di sotto con sua Chiesa inclusa e magazzeno con cortiglio grande e cisterna dove vi sono dentro le infrascritte robbe.... Nella pagina successiva si leggono gli arredi e le suppellettili di corredo alla chiesetta.
Qualche anno fa questa cappella, insieme a parte del baglio, crollò e, inoltre, una lapide, che era posta sopra l’ingresso principale, scomparve (2). Ora il tutto si trova in deplorevole stato di abbandono.
Nella Sacra Visita del 1734 il vescovo Gioeni ispezionò... cappellam seu sacellum in domo Baronis Bilici... e cioè di don Ignazio Castiglione.
Nella relazione, ma posto alla fine del documento, si dice che aveva visitato, inoltre, una chiesa rurale dedicata a S. Francesco d’Assisi, che non siamo riusciti ad individuare, nella quale c’era un quadro.
Nel 1750 vennero visitate le due cappelle del Barone del Belice, che era venuto in possesso del “Casino”, di cui si è parlato prima, che apparteneva un tempo al barone Calogero Di Giovanni, morto senza prole, i cui beni andarono in parte alla famiglia Amodei in quanto il Castiglione, barone del Belice, si era sposato con certa donna Antonia Amodei. Una delle cappelle era in paese ed era stata visitata nel 1734. Il Visitatore Generale Canonico Lo Re Sterlini ne chiese il documento di riconoscimento canonico allo stesso Barone.
Nel 1756 vennero visitate le stesse cappelle, sempre possedute dal Barone del Belice.
Nel 1772 e nel 1779 non si accenna, nelle relazioni delle Sacre Visite, a chiese private, mentre nel 1798 è certo che venne visitata la cappella della famiglia Gatto. Nella relazione, infatti, leggiamo: Domi Don Joseph Gatto et Provenzani, adest oratorium quod cum comparis sunt eleganti forma muro costrutta ab omnibus domesticis usibus separatam decent... ornatum. Rev.mi Canonici visitatores probaverunt et laudaverunt.
Nel 1808 furono visitate due cappelle in case private: una appartenente a donna Serafina Genova, mentre l’altra al dr. don Emanuele Cutino; ed anche la cappella di campagna appartenente al barone Consiglio, che si trovava nel feudo di Magone, di cui, come si è visto, ne era stato primo proprietario il barone Calogero Di Giovanni. Infatti i Consiglio, originarii di Cava dei Tirreni presso Napoli ed abitanti in Sciacca, erano venuti in possesso della baronia di Magone con l’annesso “Casino” perché Gaetano, che era Capitano d’armi a Sciacca, aveva sposato il 29 novembre 1749 la figlia del Barone del Belice, come si legge nell’atto di matrimonio presso l’Archivio Parrocchiale di Ribera sotto tale data:... Ego Sacerdos D. Vito Consiglio de licentia Rev.mi Archipresbiteri huius terrae Riberae interrogavi.... D. Caetanum Consiglio Civitatis Cavae extra Regnum Siciliae, et ad presentis habitatorem Civitatis Saccae innuptum filium legiptimo et naturalem D. Joannis Baptistae et quondam D. Ursulae Landi olim jugalibus et D. Chatarinam Castiglione huius predictae terrae etiam innuptam filia legiptima et naturalem D. Ignatii Castiglione Baronis Belicii et D. Antonia Amodei.... Il matrimonio venne benedetto nella cappella privata del Barone del Belice di Ribera. Invece nelle successive Sacre Visite non si trova più accenno di cappelle private.


1 ASS, not. Graffeo G.T., vol. 4104, minute, carta 203 e ss..

2 Il testo della lapide diceva: “Magonum punici nominis agrum inter isburum allabamque xia Triocola lapide situm unde paenorum ditio erucinos versus protendebatur a Calogero De Ioanni primo acri barone hoc in exunte soeculo vineis oleisque con situm rurali fano commodisque aedibus ex ornatur anno. Eiusdem soeculi nono octavo que e lapso anno auctore e vivis sublato omnia pessum ire temporum vicissitudine visa sunt. Caetanus demun Consiglio Magonis baronis amoenit atem vineis oleisque dignitatemque pristinam aedibus & restituit & auxit. Ioanne Bapt. a Consiglio & Castiglione Belicis baro patri optumo cui longos exortat dies. Iubens meritoque posuit. Anno MDCCLXXV. Questa è la traduzione proposta da Nicolò Riggi in http://riberatvb. altervista.org/?page_id=24): “Il campo di nome punico dei Magoni fra il Verdura (Isburus) ed il Magazzolo (Allava) (all’undicesima pietra miliare) da Caltabellotta (Triocala) posto da cui il dominio dei Puni verso Erice si estendeva, (oppure secondo Nicola Riggi altra possibile traduzione della frase potrebbe essere: posta sul versante fin quasi dove gli ericini estendevano il loro dominio) da Calogero di Giovanni primo barone della terra all’inizio di questo secolo con vigne e con olivi piantato, di un altare rurale e di conveniente tempio è ornato nell’anno dello stesso secolo nono, e, trascorso l’ottavo anno, l’autore portato via dai vivi (= morto), tutto andare in rovina per le alterne vicende dei tempi sembrò, alla fine Gaetano Consiglio barone di Magone l’amenità ai vigneti ed agli uliveti e l’antica dignità alle sedi restituì (e?) l’accrebbe, Giovanni Battista Consiglio di Castiglione barone del Belice per l’ottimo padre per cui desidera lunghi giorni con piacere e meritatamente pose. Anno MDCCLXXV”.

venerdì 1 novembre 2013

Il Baglio di contrada Magone

Descrizione storico-architettonica

Il “Casino” è uno dei più antichi e ricchi bagli oggi nel territorio di Ribera, ma all'epoca della costruzione era territorio di Caltabellotta.
La sua posizione è sorprendente: al sommo di una vallata lunga e larga in vetta a un colle isolato e tuttavia circondato da dirupi, esso domina una vasta prospettiva di terre. Il paesaggio si estende florido e insieme malinconico, tutto coltivato ad aranceti, uliveti e vigneti; del mare, a sud, si scorge l’ampia distesa d’argento.
“Casino” è un termine siciliano che sta ad indicare una casa di delizie in campagna o in città. Fu costruito nella seconda metà del seicento nella baronia di Magone per volontà del  Duca di Bivona; era chiamato anche “Casa della Secrezia” perché gestito e abitato, in un primo tempo, dal secreto o dagli affittuari.
A quel tempo il “Casino” era costituito da ventitrè corpi di casa tra quelli del piano superiore e le officine del piano terreno, la Chiesa intitolata a S. Maria degli Angeli (come apprendiamo dai registri del primo Catasto Provvisorio di Sicilia del 1847-50), il cortile, il magazzino ed infine la cisterna. La morfologia di questi elementi è rimasta sostanzialmente invariata, ma non la sua estetica e funzione. Forma un rettangolo di 30 per 36 metri, con un cortile interno di 14 per 19 metri.
Il baglio del “Casino” con la sua corte centrale, il bel portale in pietra, l’armoniosa crociera che segna il passaggio tra interno ed esterno, la preziosa chiesetta affrescata, facevano di questo manufatto uno dei più pregiati della provincia.
Oggi possiamo affermare che esso non esiste più, restano solo alcune mura a testimoniarne l'esistenza.
Il baglio è stato oggetto di ripetuti saccheggi che lo hanno spogliato di cornici, pavimenti, balaustrate, delle famose colonnine dell’ampia trifora del cortile e la lapide, apposta sopra il portale principale, da Giovanni Battista Consiglio e Castiglione che riportava il testo che segue: “Magonum punici nominis agrum inter isburum allabamque xia Triocola lapide situm unde paenorum ditio erucinos versus protendebatur a Calogero De Ioanni primo acri barone hoc in exunte soeculo vineis oleisque con situm rurali fano commodisque aedibus ex ornatur anno. Eiusdem soeculi nono octavo que e lapso anno auctore e vivis sublato omnia pessum ire temporum vicissitudine visa sunt. Caetanus demun Consiglio Magonis baronis amoenit atem vineis oleisque dignitatemque pristinam aedibus & restituit & auxit. Ioanne Bapt. a Consiglio & Castiglione Belicis baro patri optumo cui longos exortat dies. Iubens meritoque posuit. Anno MDCCLXXV.”
Il famoso affresco della chiesa era già compromesso anni addietro, ma era ancora recuperabile. Oggi al posto di quel luogo sacro c’è un cumulo di macerie e ci dobbiamo accontentare di vedere le forme ed i colori di quell’affresco di preziosa manifattura in qualche registrazione filmata da rari amatori del nostro patrimonio artistico-architettonico.
Non un albero circonda il baglio, solo resti della muratura, cumuli di terra e pietre, erbacce di tutti i tipi. Unico superstite è un albero di fico rigoglioso che cresce dentro il cortile, per il resto tutto è rovina.
Lo stato di abbandono in cui versa questo manufatto del ‘600 è veramente sconcertante. In nessun posto del mondo il patrimonio storico-architettonico è dimenticato come da noi. Non i proprietari, non l’amministrazione comunale, non la sovrintendenza ai beni culturali e ambientali, non l’iniziativa di qualche privato o di un gruppo, si è mai presa cura delle sorti di questi ruderi che adeguatamente restaurati e rifunzionalizzati sarebbero potuti divenire meta di viaggi culturali, o musei del nostro patrimonio etnoantropologico o ancora residenze agrituristiche o case d’abitazione.


Successioni feudali della baronia di Magone

Di Giovanni-Amodei - Come è noto Calogero Di Giovanni è stato il primo Barone di Magone. Questo sottofeudo, ottenuto dallo smembramento del grande feudo di Camemi (e confinante con quello di Piana Stampaci dove veniva fondata Ribera nel 1636), in uno con il baglio chiamato “Casino” costruito alla fine del ’600, veniva concesso al Di Giovanni dal Duca di Bivona. Questi ottenne dal governo che al possessore del feudo venisse dato il titolo di Barone, o meglio agri-barone.
Calogero Di Giovanni nato intorno al 1657 da Giuseppe e da Calogera Speziale da Calamonaci intraprendeva gli studi ecclesiastici (forse a Sciacca) che poi abbandonava dopo esser diventato chierico e si sposava a Calamonaci l’11/9/1678 con Anna Scarpinato fu Pellegrino e di Agata da Villafranca e abitante a Calamonaci (sorella del futuro arciprete di Ribera Vincenzo Scarpinato). Alla fine del ’600 il Di Giovanni si trasferiva a Ribera, dopo aver acquistato il feudo di Magone ed il palazzo oggi corrispondente al cortile Genova, insieme al fratello sacerdote Francesco ed alla figlia Caterina. Questa sposava a Ribera il 7 giugno 1699 Antonino Amodei figlio di Francesco e di Caterina Quaranta da Villafranca (nipote dell’arciprete di Caltabellotta Melchiorre Quaranta).
Il Di Giovanni moriva il 19 aprile 1717 cioè due giorni dopo aver ottenuto di investirsi, per sé e per i suoi eredi, del titolo di Barone di Magone, mentre la moglie era morta tredici giorni prima e cioè il 6 aprile.
Dal matrimonio di Caterina Di Giovanni nascevano, invece, tre figlie: Anna nata il 31 agosto 1701, Antonia nata il 23 agosto 1704 e Domenica nata il 10 settembre 1705. Mentre gli unici figli maschi Francesco e Calogero nati rispettivamente l’8 marzo 1700 e il 20 giugno 1703, morivano pochi mesi dopo la nascita. Pochi anni dopo morivano anche i loro genitori, il padre il 16 aprile 1708 a Villafranca, e la madre il 16 aprile 1709 ad appena 27 anni a Ribera e lasciavano così le tre bambine orfane in tenera età. Queste venivano cresciute, quindi, dai nonni Calogero Di Giovanni e Anna Scarpinato. Anna Amodei era andata in sposa al barone di Racalmaimone (Scunda) don Giuseppe Bona da Bisacquino. Purtroppo anche i nonni, come abbiamo visto, morivano nel 1717 lasciando Antonia a 13 anni, Domenica a 12 e Anna che moriva nello stesso anno il 16 novembre a soli 17 anni.
Calogero Di Giovanni con testamento del 17 aprile 1717 lasciava a Domenica il feudo di Magone con palazzo (Casino) e con relativo titolo di barone, il palazzo sito in Ribera; ad Antonia lasciava, invece biancheria per un valore di onze 200 ed altre onze 2800 sull’asse ereditario; alla figlia Anna Amodei ed al marito barone Giuseppe Bona lasciava del denaro ed altri beni minori; infine ad Antonino e Giuseppe Piscione, che il Di Giovanni dice suoi nipoti, lasciava una chiusa di terre nella contrada Cisternazza nel feudo di Camemi e del bestiame.
Domenica Amodei abitava a Palermo e in un primo momento pensava di affittare tutti i beni posseduti a Ribera. Infatti con atto del 21/7/1720 nomina procuratore don Giuseppe Troncali per tale operazione. In seguito, ci riferisce il De Spucches, rinunzia al titolo e lo passa, insieme ai beni, alla nipote Caterina nata dalla di lei sorella Antonia ed il barone del Belice don Ignazio Castiglione. Si spegne così la casata Di Giovanni-Amodei.

Castiglione - (Baroni del Belice) - La casata dei Castiglione di Sicilia, secondo il Mugnos è originaria di Milano. Mango Casalgerardo riferendo brevemente quanto detto dal Mugnos scrive che «un Bartolomeo è tra i secreti e maestri portulani di Sicilia sotto re Pietro 1282; un Ansalone (Castellano) è giudice di Messina 1311; un Giacomo, figlio ed erede di Mazzullo e di Giacomina Stagno, vende nel 1375 un fondo chiamato S. Giusto Pantaleona Stagno; un Lorenzo Castiglione e Paci con privilegio dato l’11 luglio 1650, ottenne il titolo di barone di S. Luigi; un Nicolò fu giudice Pretoriano di Palermo nel 1730-31 e del Concistoro nel 1735.»
Il ramo dei Castiglione che ci interessa ha origine a Mussumeli con certo Luigi sposato con Domenica da cui nasceva Michele che sposava a Cammarata nel 1578 Laura De Caldararo figlia di Francesco e Giovanna. Da questi nascevano tre figli: Paolino, Clemente e Antonino. Quest’ultimo, ci riferisce il De Gregorio, «…nacque in Cammarata nel 1590. Nel 1620 Antonino Castiglione comperò delle rendite da Filippo Taverna, figlio di Ottavio. Probabilmente compì gli studi filosofici e teologici fuori regno conseguendo la laurea in teologia, ma non fu ordinato sacerdote, forse fu chierico. Non è da escludere che sia stato a Roma dove ottenne il titolo (e probabilmente esercitò l’ufficio) di Protonotario Apostolico e contrasse rapporti e amicizie con molte personalità di rilievo. Fu anche abate — onde il titolo più usuale con cui è chiamato nei documenti — di S. Domenica de Monte Dei di Ficarra. Il Pirro, tra i monasteri soggetti all’archimandritato del SS. Salvatore di Messina, ricorda quello di S. Angelo di Ficarra che ritiene sia anche denominato di S. Maria de Monte Dei e aggiunge: “Viene conferito dai Papi; oggi per cessione di Paolo de Angelis, siciliano Narese, c’è, con il titolo di abate, Antonio Castiglione, siciliano, Cammaratese”. Il Castiglione poté ottenere il titolo di abate, con le rendite di S. Maria de Monte Dei, forse anche come compenso della sua attività di Protonotario Apostolico. Fu anche beneficiale della Madonna dei Miracoli di Cammarata. … Il Castiglione morì il 18 agosto 1648, come risulta dall’atto di morte. Il 15 agosto in notar Girolamo de Angelo egli aveva fatto testamento, nominando erede universale il fratello Paolino. In questo testamento il Castiglione legittimava espressamente due figli naturali: Giuseppe e Anna di cui creava tutore Barnaba Hyacinto Merelli. “A Giuseppe Castiglione, suo figlio naturale — è detto — lasciava gli infrascritti feghi cioè Recattini, li Manichi, Simponessa, La Chiappona, Chibbo, Vicoretto e Vaccarizzo, feghi della baronia di Belici con carico di pagare ad Anna Castiglione, altra sua figlia naturale, onze ventimila, una volta tantum, a tempo di suo matrimonio o monacato ed interim di alimentarla e sustenirla di alimenti e vestimenti necessari”. … Le liti giudiziarie sulla sua eredità continuarono a lungo e forse dispersero il patrimonio dell’abate. Dalle notizie qui raccolte non sappiamo storicamente stabilire se il Castiglione sia stato un abile speculatore, uno sprovveduto amministratore dei suoi beni, un megalomane, un avventuriero…».
Il fratello Paolino, come abbiamo visto, è invece l’erede universale dei beni del fratello Abate Antonino che passeranno poi ai figli Mariano, Antonino e Francesco.
L’altro fratello dell’abate, Clemente Castiglione barone delli Manchi, lo troviamo a Ribera mentre questa era in costruzione e cioè nel 1635-36, come amministratore dei beni di Antonino arrendatore della contea di Caltabellotta e della stessa Ribera, di cui faceva parte, appartenente al Principe di Paternò. Dopo alcuni anni il Clemente lasciava Ribera, però contemporaneamente aveva fatto acquistare al figlio Filippo il feudo e la baronia di Racalmaimone (Scunda), nel territorio tra Sciacca e Caltabellotta, da Francesco Enriquez e lo fa investire dei relativi titoli il 18 marzo 1635, ma lo zio Antonino lo rivende il 17 dicembre 1642 al notaio Francesco Di Stefano, con promessa di fare ratificare l’atto da Clemente e da Filippo. Ci sfuggono però i motivi di questa improvvisa vendita fatta dall’abate Castiglione.
La baronia di Belici, ci riferisce il De Spucches, faceva parte della Contea di Golisano e si componeva di dieci feudi di cui uno è Timparussa. Della Contea di Golisano e Baronia di Belice s’investì il 9 giugno 1627, Luigi Moncada, principe di Paternò, per la rinuncia di Antonio, suo padre. Questi vendette i feudi di Timparussa, Chiapparia, Vicoretto, Chibbo e Barbarico, membri della baronia del Belice ed il relativo titolo all’abate Antonino Castiglione con atto stipulato dal notaio Giacinto Cinquemani in Palermo in data 14 ottobre 1635. Questi non prese investitura. Le notizie però si rilevano da un’investitura posteriore del settembre 1666, e propriamente dal Processo d’Investitura dell’anno 1666-67, l’8 marzo, per cui questa ebbe luogo solo allora, ma né Antonino, che era già morto, né tantomeno il figlio naturale Giuseppe poterono godere di detta Investitura poiché per il passaggio della corona da Filippo IV a Carlo II venne investita della baronia Petronilla De Migliori il 16 settembre 1666 tramite aggiudicazione della Regia Corte Pretoriana. Il 22 aprile 1702 Giuseppe Castiglione, riprese investitura del feudo venendogli restituito da Petronilla De Migliori, per causa di lesione, rimedio graciose, per sentenza della Regia Gran Corte in data 27 ottobre 1667.
Il figlio primogenito ed erede particolare di Giuseppe Castiglione e Vincenza Luparelli, Ignazio, si investiva della baronia del Belice il 25 settembre 1720. Si era sposato a Palermo il 20 dicembre 1717 con Antonia Amodei e figlia di Antonino Amodei e Caterina Di Giovanni di Ribera. Quindi si trasferirono a Ribera tra la fine del 1724 ed i primi del 1725 e si stabilivano nel palazzo Di Giovanni.
Da questi nacquero ben 13 figli (9 maschi e 4 femmine), ma solo 4 arrivarono alla maggiore età (3 maschi e 1 femmina) e di questi solo due si sposarono.
Il primogenito, Giuseppe, nato a Palermo intorno al 1722, si sposò con donna Anna Bonomo, già vedova di Rosario Ortolani da Caltavuturo, nel 1740 circa acquisendo il titolo di Barone di Magone. Ebbero tre figli: Francesco, Antonia e Ignazio, morti tutti in tenera età. Anna Bonomo moriva dopo il 20 novembre 1747, data in cui rogò il testamento agli atti del notaio Giacinto Blasco di Ribera, mentre il marito moriva tra il 1753 ed il 1758. Il titolo, quindi, passava di nuovo al padre Ignazio, che moriva a sua volta il 28 aprile 1759, mentre la moglie Antonia Amodei moriva il 6 giugno 1769, così i beni ed i titoli passavano, secondo le disposizioni testamentarie, al figlio Agostino, che era nato il 19 dicembre 1735, il quale era rimasto celibe e moriva il 19 dicembre 1773 non facendo in tempo ad investirsi dei titoli del padre. Quindi ereditava il di lui fratello Calogero, che era nato nel 1736, che si investiva dei titoli di Barone del Belice e di Magone il 7 luglio 1781 e, rinunziandovi, questi passavano alla sorella Caterina il 9 successivo. Calogero moriva celibe il 21 luglio 1784.
Consiglio – Caterina Castiglione, che era nata il 14 gennaio 1731, era andata in sposa, a Ribera, il 29 novembre 1749 a Gaetano Consiglio da Sciacca, dove era andata ad abitare, per cui essendo venuta in possesso, oltre che del titolo, anche, dopo la morte del fratello Calogero, dei beni, vendeva tutti gli immobili urbani, mentre teneva il feudo di Magone dove insisteva il titolo di barone. Caterina moriva a Sciacca il 25 agosto 1810 e così si spegneva completamente la famiglia Castiglione di Ribera, mentre il titolo di barone del Belice e di Magone passava al di lei figlio Giovanni Battista Consiglio e Castiglione, nato a Sciacca il 18 novembre 1754, capitano d’armi a Sciacca, che sposava il 26 novembre 1791 Marianna Tagliavia figlia di Giuseppe e Teresa Tagliavia. Quindi al loro figlio Gaetano, nato il 6 marzo 1793, insigne patriota che partecipò ai moti di Sciacca del 1848, il quale non chiese riconoscimento del titolo. Si era sposato con Anna Maria Grimaldi da loro nasceva, primogenita, Marianna il 17 febbraio 1820.
Tagliavia - Marianna Tagliavia sposava il 13 aprile 1842 Francesco Onofrio Tagliavia Duca di Alagona, figlio del fu Giovanni (Capitumolo, che per il matrimonio assunse il cognome di Tagliavia) e Marianna Tagliavia e Adamo, per cui i titoli di barone del Belice e di Magone passarono alla casata dei Tagliavia di Alagona, ma per pochi anni poiché una figlia di questi sposerà un Di Stefano.
Di Stefano o De Stefani – A Sciacca erano presenti due famiglie con questo cognome, quella che interessa noi è la famiglia De Stefani-Falco, poiché a Sciacca ha come capostipite il cav. Giuseppe De Stefani-Santangelo, cav. dello Speron d’oro, nato in Santa Ninfa nel 1790, ove si rese tanto benemerito; il quale sposò in Sciacca la signora Giovanna Falco, procreando diversi figli, alcuni in Sciacca altri nel citato comune d’origine, e tra essi il dottor Mariano, la signora Ignazia, che fu educata nel monastero di Fazello e che poi fu moglie al cav. Calogero Amato-Vetrano, il cav. Vincenzo che studiò per genio la pittura in Palermo ed in Roma, e divenne un buon artista, ed il barone Angelo che sposò a Sciacca nella Chiesa Madre il 3 luglio 1859 Anna Maria Tagliavia-Capitumolo baronessa di Magone figlia del fu Francesco Onofrio e della vivente Marianna Tagliavia suddetti. Agli inizi del '900 era presente questo ramo con il cav. Cesare, figlio di Mariano, e dal baronello Giuseppe, figlio del detto barone Angelo.
Lo stemma di questa famiglia è uno scudo rilevante tre stelle con tre corone, standovi al di sotto terra e mare.
Nel 1872, come risulta dal catasto provvisorio di Ribera del 1847-50, il feudo e il Casino passavano a Angelo Di Stefano. Nel catasto del 1890 risulta intestato Francesco Di Stefano e poi gli eredi, nei primi anni del ‘900 lo venderanno a varie persone per cui anche il baglio venendo frazionato non avrà più nessuna manutenzione e praticamente piano piano gli eventi atmosferici lo distruggeranno.

La costruzione

Nell’attuale territorio di Ribera le uniche costruzioni che esistevano nel ‘500 erano il castello di Misilcassim o Poggiodiana e la masseria di Misilcassim che si trovava proprio nel luogo dove, nel secolo successivo, veniva fondata Ribera.
Con la nascita di Ribera e quindi la messa a cultura dei terreni limitrofi si vide il castello perdere sempre più di importanza e nei feudi si cominciarono a costruire masserie e bagli.
Così il castello nella posizione in cui si trovava cominciava ad essere molto scomodo anche per l’uso prettamente agricolo a cui ormai era adibito. Il potentissimo uragano del 28 settembre 1667, la forte grandinata del 25 novembre 1667 di cui, si dice, ogni granulo era quanto un uovo, la carestia del 1672, probabilmente, fecero sì che il restauro della struttura castellana, così grande ed imponente e ormai così provata, risultasse antieconomico. La maniera per evitare ancora sperpero inutile di denaro era la costruzione di altre case a valle del feudo e, quindi si provvedeva in tal senso. Infatti il 18 ottobre 1678 “Magister Paulus Miraglia, faber murarius” dichiarava di aver ricevuto da Girolamo Colle, secreto di Caltabellotta e Ribera, onze 26,20,17 “in havere fatto la casa della Canna Grande come all’obligazione fatta da detto mastro Paolo nell’atti della corte Civile di questa terra di Ribera di Moncada…”. Questa casa era stata fatta, come si legge nell’atto, “per commodità delli gabelloti d’esso territorio della Canna grande e suo guardiano come per la guardia del mulino della Torre per essere in campagna e vicino la fratta con pericolo grande d’essere derubato come per il passato.”
Alcuni anni dopo un altro tremendo, quanto famigerato, terremoto si abbatteva sulla Sicilia orientale, cioè quello del 1693. Nelle nostre parti si avvertiva dal 9 all’11 gennaio, quest’ultima volta un po’ più violento della prima. Da quell’anno si perpetuò l’usanza di fare una processione e di esporre il Santissimo nelle chiese parrocchiali e di cantare il Te Deum nelle chiese sacramentali.
Non sappiamo se questo terremoto minò ulteriormente il castello, ma, di certo, apprendiamo che continuavano a costruirsi dei bagli in quasi tutti i feudi compresi nell’ormai ex baronia di Misilcassim, ed inoltre il castello veniva letteralmente smontato per utilizzarne il materiale per la costruzione del “Casino”, struttura architettonica a baglio, sita in contrada Magone, nel territorio di Ribera. Infatti in due documenti che portano la data del 19/20 febbraio 1693 leggiamo: “Eodem die decimo nono februarij prima Ind. millesimo sexcentesimo nonagesimo tertio. Magister Sebastianus Raija de hac terra Ribera de moncada mihi notario cognitus coram nobis sponte declaravit in anno XV Ind. p.p. et in presente anno fatetur habuisse et recepisse ab Antonino Navarra absente pro ut uti deputato in hac predetta terra Ill.ma Deputationis Eccellentissimi Domini Ducis Montis Alti. Unciarus tres tarinorus duodecim et granorus decem ponderis generalis de quaesiti siti solutis de ordine Magnifici Hieronimi Baldanza commissionati dicta Ill.ma Deputationis mihi etiam cogniti presentis et sic ordinasse consistentis ut dicitur veris. Se li pagano cioè tt. 3 per menza giornata sua et un manuali fatta all’11 luglio per l’accomodo delli soli delle cammare del Casino in questa di S.E.P. nell’appartato del Secreto; tt. 10 per esso e tri manuali haver levato n. 14 scalandroni del Palaggio di Poteggiano scoverti nelli tetti di suso e calari alcuni canali in terra…”.
Mentre nell’altro si legge: “Eodem (20 febbraio 1693) Magister Paulus Marsalisi de hac terra Ribera de Moncada mihi notario cognitus coram nobis sponte fatetur habuisse et recepisse ab Antonino Navarra absente pro ut uti deputato in hac predetta terra Ill.ma Deputationis Ecc.mi Domini Ducis Montis Alti. Unciarus decem tarinorus vigintinove et granoru unu ponderis generalis diversi mode de quaesiti siti solutis de ordine magnifici Hieronimi Baldanza commissionati dicta Ill.ma Deputationis mihi etiam cogniti presentis et sic ordinasse consistentis ut dicitur veris. ... E tt. sei pagati à 2 agosto per far carriare n. 12 carrichi di canali dal palaggio di Poteggiano in questa terra.”
Quindi alla costruzione del Casino vigilava la Deputazione del Duca di Bivona rappresentata in questo anno, 1693, da Antonino Navarra. Ma nel frattempo stava facendosi strada un calamonacese, Calogero Di Giovanni che dalla borghesia stava passando alla media nobiltà. 
Così il feudo di Magone diveniva agri-baronia nei primi del 1700 con il secreto e affittuario degli stati di Ribera e Caltabellotta, Calogero Di Giovanni.
Calogero Di Giovanni si trasferiva a Ribera, proveniente da Sciacca, nel 1692, epoca in cui acquista una vigna nella Piana di Stampaci vendutagli da Michele Di Leo. Pensa così di porre la sua dimora a Ribera e si fa costruire un palazzetto dal capomastro di Cattolica Pellegrino Vanella. Gli intagli li commissionava invece ai fratelli mastri Felice e Ignazio Miraglia di Ribera.
Quindi alla morte di Calogero Di Giovanni (1717) venne fatto l’inventario  dei beni che possedeva e fra questi vi era anche il feudo di Magone ed il Casino. L’atto porta la data del 28 aprile e vi leggiamo:
Item numero 36000 di vigne d’anni 14 in circa existenti nella Piana di Magone territorio di Caltabellotta confinante al Casino divise in 4 partenze.
Item altro migliaro (più altre 2000) di vigne nella Cava del Crivaro in detto Casino…
(In tutto 89000 viti)
Item 4000 di piedi di olive in circa essistenti in dette vigne piantate d’anni 4 e 6 in circa.
Item altri tumuli tre di terre nel medesimo luoco dove vi sono piantati diversi alberi di frutti di anni 4 e 6 in circa con suo gebbia di acqua à guisa di giardino.
Item un Palazzo sito e posito nel fego seu Piana di Magone uti dicitur il Casino consistente in numero 23 corpi di case trà quelle di sopra ed officine di sotto con sua chiesa inclusa e magazzino con cortiglio grande e cisterna dove vi sono dentro le infrascritte robbe cioè:
In primis n. 40 quatri di diversi paesaggi ordinarij con sue cornici negre…
Item addobbi della Chiesa cioè un calice di argento,…una casubula bianca ed altra negra con sue manipole e stole, un missale di requiem, altro missale Romano, un cammiso con cingolo ed ammitto di tela, un moccatorello di ampolline, due tovaglie di altare, due bossole per l’Ostia, n. 6 candileri dorati di mustura con sua croce e vasetti e rametti.
Nel 1847-50 la consistenza della masseria la vediamo dal catasto provvisorio sopra citato.
La residenza veniva usata fino al XIX secolo dai proprietari sia per i lavori stagionali che per sollazzo estivo, dove amavano andare anche i Consiglio. Infatti in un atto notarile del 1812 apprendiamo le lamentele di Giovanni Battista per il fetore che proveniva dalla valle sottostante a causa della coltivazione del riso:
Avanzò suo ricorso alla Maestà Sua Ill.ma D.G., l’Ill.mo Signor Don Giovanni Battista Consiglio barone di castel Belice, e di Magone della città di Sciacca implorando le opportune provvidenze sul pregiudizio che viene a recarsi alla sanità della gente di servizio addetta alla coltura del suo predio nella quontrada di Magone territorio di questa terra di Ribera di Moncada, ed alla salute della sua persona nommeno che della sua famiglia nel tempo che trattengonsi nella Casina di detto fondo per villeggiare in ogni anno; e ciò per l’aere pestifero caggionato dalle risiere fatte dalli infrascritti naturali di questa in quei contorni infra la distanza di tre miglia di là dall’abitato prescritta dalle leggi.” Quindi viene imposto a coloro che coltivavano il riso di togliere queste colture ed impiantare altro tipo di piantagioni, ma dovrà passare ancora più di mezzo secolo  e l’interessamento del dottore e poeta Vincenzo Navarro per poter capire che anche la malaria aveva a che fare con le risaie.


Raimondo Lentini



La famiglia Turano baroni di Campello originaria di Caltabellotta

La famiglia Turano ha origine da Caltabellotta dove il capostipite Giacomo era sposato con una certa Costanza. Essi, tra gli altri, avevano un figlio, Giuseppe, giurato di Caltabellotta che si sposava a Sciacca il 2 giugno 1571 con Laura Amato figlia del magnifico giurato Tommaso e Benedetta Garro. Nel rivelo del 1593 che Giuseppe presenta a Caltabellotta dichiara di avere 49 anni e quattro figli: Sebastiano di 13 anni, Accursio di 8 anni, Girolamo di 4 anni e Leonarda.
La linea che ci interessa è quella di Girolamo il quale si sposa pure Sciacca il 23 ottobre 1617 con Angelica Landolina (nata a Sciacca il 21 settembre 1595) figlia del dottor Serafino e Gesua Siragusa originari di Agrigento.
A Sciacca erano presenti molti Turano che ricoprivano cariche pubbliche (giurati). Tra questi ricordiamo un Giacomo nel 1591, 1607; un Francesco nel 1600 ‘05 ‘09 ‘12 ‘13 ‘14; un Mario nel 1620; un Vincenzo nel 1653 ‘81 ‘94; un Giovanni nel 1655; un Alessandro nel 1690. Un Giuseppe fu capitano d’armi nel 1595. Anche a Caltabellotta membri di questa famiglia sono stati giurati e amministratori come un Girolamo nel 1551 secreto, un Tommaso e un Antonino nel 1567-68, un Mandricardo nel 1629.
Stavolta Girolamo e Angelica Landolina si stabiliscono a Sciacca e dal matrimonio nascono Laura Filippa nata a Sciacca (Matrice) il 22 giugno 1618, Mario Baldassare nato a Sciacca (S. Vito) il 2 settembre 1620, Gaspare Francesco idem il 7 febbraio 1622, Giuseppe Benedetto Melchiorre idem il 21 marzo 1635 e Serafino (il cui nome proviene dalla famiglia Landolina) nel 1629, ma non a Sciacca.
Secondo le ricerche fatte dalla famiglia Serafino si sposava il 2 febbraio 1652 a Burgio con Caterina Gallo e Marsala, però nei registri parrocchiali non si trova traccia di tale matrimonio. Egli è stato il primo ad essere insignito del titolo di barone. Infatti il San Martino De Spucches riferisce: "Serafino Turano e Landolina, con privilegio dato il 17 marzo 1668, ottenne concessione del titolo di barone di Cambelli e Catamaggi; un Girolamo (discendente diretto di Serafino) acquistò la baronia di Suttafari, di cui ottenne investitura a 26 giugno 1798."
Da questo momento il ramo di questa famiglia aggiungerà a Turano un secondo cognome cioè "Campello". Dal matrimonio tra Serafino e Caterina nasceva a Burgio, tra gli altri, Girolamo il 7 settembre 1653, il quale sposava, sempre a Burgio l'1 settembre 1681, donna Bartolomea Sgaraglino, vedova di Francesco Giacomazzo e figlia del fu Antonio e di Pietronilla Sciortino (nata il 15 novembre 1655 e morta il 10 novembre 1722). E da questi nasceva così Gioacchino il 24 dicembre 1686 il quale si sposava a Ribera il 2 settembre 1708 con Caterina Navarra di Antonino e Giovanna Pasciuta.
Il ceppo principale dei Turano Campello si trasferiva così a Ribera dove continuava ad amministrare, oltre i propri beni di Burgio, Sciacca e Ribera, anche quelli del Duca di Bivona.
Da Gioacchino e Caterina nascevano a Ribera Girolamo l'1 agosto 1709 e Antonino il 23 ottobre 1710. I due fratelli affittarono dal Duca di Bivona gli stati di Ribera e Caltabellotta, amministravano la cosa pubblica e Girolamo fu anche governatore della confraternita del SS. Rosario, mentre Antonino lo fu di quella del SS. Sacramento.
I due fratelli Turano avevano sposato nel 1739 due sorelle appartenenti alla facoltosa famiglia dei Coffaro di Cammarata e rispettivamente Girolamo a Luisa e Antonino, Domenica.
Girolamo amministrava oltre alla confraternita anche la cassa del comune e su ordine dell'amministratore dei beni del Duca di Bivona elargiva gli avanzi di cassa che servirono per la costruzione della Chiesa Madre di Ribera, mentre alla sua morte per un periodo la cassa comunale venne mantenuta dalla moglie Luisa.
Girolamo moriva nel 1759 cioè l'anno prima della inaugurazione della Chiesa Madre e ciononostante volle esservi seppellito, sotto la pseudo cupola e in faciem l'altare maggiore. Al momento della riesumazione indossava una tunica di fodera marrone che era probabilmente il saio della confraternita.
Antonino nel suo testamento datato 7 gennaio 1761 chiede di essere seppellito accanto al fratello Girolamo nella Chiesa Madre, ma non abbiamo trovato traccia di alcuna lapide nel pavimento.
Il titolo di barone era naturalmente di Girolamo come primogenito che generava, tra gli altri, Serafino (battezzato a Sciacca il 9 settembre 1752). Serafino veniva investito barone di Suttafari (vedi sopra) e fu colui che ospitò l'inglese Charles Henry Swinburne nel suo passaggio per Ribera. Da Serafino e la moglie Benedetta Napoli e Savatteri da Bivona, nasceva a Ribera e veniva battezzato a Sciacca il 16 maggio 1776 Girolamo il quale fu sindaco di Ribera e anch'egli governatore della confraternita del SS. Rosario e ne ristrutturò la chiesa ed ivi volle essere seppellito alla morte, avvenuta nel 1839.
A questo proposito possiamo aggiungere che in una ricognizione fatta nel 2002 presso lo Stazzone di Ciavolaro abbiamo rinvenuto un pezzo della lapide sepolcrale del detto barone dove si legge: "HIC. E.... HIERON... B.NIS CAMPELLI... QUI. OBIIT. DIE. 20. N....". È indubbiamente la sua lapide, infatti egli è morto il 20 novembre 1839 ed è stato sepolto nella chiesa del Rosario e dal suo testamento apprendiamo che volle essere messo di fronte all'altare. La lapide è in attesa di giusta collocazione.
Per i secoli successivi i baroni Turano Campello vissero a Ribera mentre gli eredi attuali si trovano tra Sciacca, Palermo, Roma e la stessa Ribera.
Nei testi araldici consultati non abbiamo trovato lo stemma, ma nella cappella gentilizia di recente costruzione sita nel cimitero di Ribera ne abbiamo trovato uno in marmo monocromatico dove però non si possono evincere i colori (vedi foto).

Raimondo Lentini